Il lavoro della musica

Questa mattina mi trovavo con il mio amico Damiano Meraviglia per preparare il prossimo appuntamento dalla Royal Opera House al Nuovofilmstudio di Savona.

Gli raccontavo che la scorsa volta, dopo aver presentato Il barbiere di Siviglia di Rossini, un distinto signore del pubblico mi ha chiesto come faccia a ricordare tante date e, in generale tante cose. La domanda sembra apparentemente innocua ma oggi riflettevamo con Damiano sul fatto che esiste un retropensiero.

Mi spiego: io lavoro nel mondo della musica e del teatro, è ciò che ho studiato; ho insegnato Storia della musica e dunque direi che presentare opere è il mio lavoro. Immagino che il distinto signore di cui sopra, andando dal medico, non si senta portato a chiedergli stupito come faccia ricordare tutti i nomi delle malattie o delle ossa o degli organi, così come, rivolgendosi a un ingegnere, non penserà di chiedergli come fa a ricordarsi come si fanno i calcoli o roba del genere. Se la domanda viene posta a chi si occupa di musica è perché, in fondo, si pensa che il mio sia un hobby, che io sia un’appassionata, una che si diletta di ascoltare musica, ogni tanto apre wikipedia per leggere la data di qualche prima rappresentazione e poi ha tanta buona memoria.

La cosa, temo, riguarda in generale tutti quelli che si occupano di arti, quelli cioè a cui viene sempre chiesto: “sì, ma di lavoro vero cosa fai?”.

A tutti i curiosi, dunque, mi sento di rispondere – provocatoriamente – come rispondevo ai miei studenti quando mi domandavano che musica ascoltassi per “divertirmi”: io non ascolto la musica per “divertirmi” perché sono come i ginecologi, lavoro dove gli altri si divertono.

EEA

E se ai partiti cambiassimo i nomi?

Come sapete, Di Maio, non più pentastellato, ha fondato Impegno civico.

A qualcuno di voi magari il nome non sembrerà nuovissimo e ricorderà Scelta civica di Mario Monti.

Ma a parziale discolpa di Giggino va detto che, da quando usare la parola “partito” nel nome di un partito è diventata una cosa da sfigati al punto che solo il PD persevera diabolicamente, è difficile inventarsi nomi nuovi e si ruota sempre intorno allo schema “Italia” e un’esortazione motivazionale tipo “Forza”, “Coraggio”, “Mavattelapiànderculo” o si cerca di ricordare che, nonostante i parametri clinici dicano il contrario, l’Italia è ancora viva (e qualcuno comincia a sospettare che ci sia dell’accanimento terapeutico), oppure si punta su nostalgici spiriti di corpo con termini che denunciano il profondo senso di umano bisogno di prossimità: “fratelli”, “lega” (sostantivo, non voce del verbo) sono infatti parole che, appena le senti, immagini subito questi politici a braccia aperte, inclusivi (come dicono quelli bravi), pronti ad accogliere nel proprio seno chiunque come fratello, amico, sodale.

Dunque, questa limitazione lessicale credo imponga uno sforzo da parte nostra e anche io voglio fare la mia parte.

Rifacendomi alla grande tradizione operistica italiana in cui è possibile compiere qualsiasi turpitudine con il più elegante degli eloqui, proporrei: “Orsù, italico suol” invece di Forza Italia; “Fa core, patria” per Coraggio Italia; “Cari compagni e voi tenere amiche” al Partito democratico; “Luoghi ameni, ancor non cancellati” al posto di Italia viva; “Le ombrose piante, il mare, il suol” ai Verdi; “Fuor d’Italia, più vasta patria” per Più Europa; “Indomito contro la procella” per Azione; “Da stessa madre nati, su questa terra italica” per Fratelli d’Italia e, ovviamente, “Sia posto in ceppi quell’uom!” per Lega Salvini.

(Emanuela E. Abbadessa)

Chiedi chi erano i Doors

Sono una boomer. Sono cioè cresciuta in anni in cui noi ragazzini eravamo davvero tanti (56 in classe al mio primo giorno della prima elementare) e il mercato proponeva formaggini dal gusto giovane. Nondimeno, in quegli anni, essere anziani era un valore. Un valore contro il quale avremmo fatto anche noi le nostre battaglie, avremmo “ucciso i nostri padri” per dimostrare che non eravamo buoni soltanto a ciucciare formaggini.

Sono una boomer che frequenta i social e legge anche i post delle nuove generazioni, millennial o z che siano, e che per semplicità d’ora in poi chiamerò genericamente “giovani”. Una manciata di giovani, oserei dire, rispetto ai debordanti dati demografici degli anni dal Dopoguerra ai Sessanta. Eppure una manciata di giovani che, a volte, sanno prendere posizioni nette (l’attenzione al mutamento climatico è merito loro, per esempio) e sono capaci di focalizzare l’interesse di intere nazioni.

Anche loro, come tutti quelli che li hanno preceduti, devono “uccidere i padri” per ritagliarsi il loro spazio e andare oltre la semplice certificazione di esistenza in vita. E fanno bene a farlo.

Forse, però, a volte, rischiano di buttare via anche il bambino con l’acqua del bagnetto (probabilmente lo abbiamo fatto anche noi boomer, non voglio certo ergermi a laudator temporis acti – per carità! – perché a farmi sentire vecchia basta da solo lo specchio).

Ci pensavo questa mattina facendo le pulizie. Io sono una boomer che, a volte, pulendo casa, ascolta la radio.

In radio, questa mattina, passavano la canzone che La Rappresentante di lista ha portato a Sanremo, Ciao ciao. Ero lì a spolverare quando mi accorgo che anche l’emittente su cui ero sintonizzata stava mandando in onda la versione censurata del brano (come fanno in tv, in programmi come L’Eredità o Uomini e donne, roba da boomer che seguo io), quella cioè in cui la cantante dice due volte “con le gambe” invece che “con le gambe, con il culo”. Culo. Parola che, sia detto, ha cantato a squarciagola in tutte le serate sanremesi, dunque sulla stessa Rai Uno che oggi manda la versione purgata.

Così ho ripensato anche alla partecipazione degli apparentemente trasgressivi Måneskin all’Eurovision Song Contest. Per partecipare fu chiesto loro di cambiare il testo della hit vincitrice del Festival di Sanremo (e che si sarebbe aggiudicata anche la palma europea), Zitti e buoni, in cui compariva la parola “coglioni”, che pure anche loro avevano urlato in prima serata dal palcoscenico ligure.

Nulla di male, ovviamente, nel desiderare un pubblico più ampio e, dunque, ripulire i testi dai culi e dai coglioni, perché, si sa, pecunia non olet.

Qualcosa non di male, invece, ma di lievemente disturbante, c’è nei post dei suddetti giovani a proposito di questi interpreti. I tweet prodotti dai giovani durante l’esibizione dei Måneskin all’Eurovision Song Contest erano per la maggior parte molto violenti contro noi boomer che, a loro dire, saremmo dovuti restare sconvolti dal trucco di Damiano, dal look del gruppo, dallo smalto su unghie maschili. Noi. Sconvolti. Da un ragazzo in reggicalze. Da quello stesso ragazzo che per dimostrare di non essersi chinato su un tavolo per farsi una pista di coca si è reso disponibile a un test antidroga? Intendiamoci, non c’è niente di “figo” nel drogarsi – tutt’altro! – ma noi boomer siamo costretti a ricordare ai giovani “le porte della percezione” di Jim Morrison e che lo stesso Jim Morrison non censurò Light my fire all’Ed Sullivan Show e, pur avendo pattuito l’“ammorbidimento” del testo (“girl, we couldn’t get much better” invece di “girl, we couldn’t get much higher” per eliminare ogni possibile riferimento alle droghe), in diretta sconvolse i telespettatori statunitensi interpretando la versione originale, al punto che Ed Sullivan non gli strinse la mano dopo la performance e che i Doors furono banditi dagli studi televisivi.

Il reggicalze di Damiano o il “battesimo” a torso nudo di Achille Lauro ci fanno al massimo sorridere dopo aver visto le calze a rete sulle cosce di Tim Curry nei panni di Frank-N-Furter o il pene di Jim Morrison (sì, ancora lui) sul palcoscenico.

Sono una boomer cresciuta guardando un chitarrista fare cunnilingus alla sua Stratocaster; mi sono scoperta donna sognando la pelvi di Mick Jagger che manco un’ora su YouPorn ha per me lo stesso effetto. Per noi boomer Ozzy Osbourne ha staccato a morsi la testa a un pipistrello (gesto condannabile senza dubbio, ovviamente) e nei musical che vedevamo c’erano uomini integralmente nudi e cantavano canzoni in cui si diceva che la sodomia e la fellatio non sono parole così “cattive”. E se non è una cattiva la parola pompino, figuratevi culo.

Ed è facile andare oggi sul palco di Sanremo in tutina di lamé e occhi bistrati, difficile era farlo nella periferia di Roma negli anni Settanta, quando il più gentile si limitava a gridarti “frocio”.

Quindi, forse, prima di immaginare un boomer scandalizzato, sarebbe il caso di chiedergli di quando Marina e Ulay, nel ’77, costringevano il pubblico della Settimana Internazionale della Performance a passare per una porta così stretta da doversi strofinare contro i loro corpi integralmente nudi e immobili ai lati dei battenti o di quando, a Darmstadt, si rimetteva in discussione tutto ciò che si era creduto indiscutibile in musica. Proprio tutto e, in qualche caso, anche quello che non doveva essere discusso.

(Emanuela E. Abbadessa)

Aimez-vous Crumb?

Ho spesso bisogno di cose che escano fuori dai contorni assegnati loro dalla consuetudine, dalla tradizione, dalla regola. Come gli album da colorare nelle mani dei bambini, in cui i tratti spessi di pastello schizzano via come saette dai visi paffuti degli orsetti o dagli abiti sontuosi delle principesse. Mi piacciono le persone che vanno fuori dai binari facendo o dicendo qualcosa che non mi aspetto, perché a me piace essere sorpresa.

Se leggo un libro, per esempio, preferisco che la forma – una silloge di poesie, un saggio, un romanzo –, a un certo punto, mi colga impreparata con un piccolo deragliamento. Proprio come uno strattone che, durante un viaggio in treno, inchiodi all’improvviso la mia schiena al sedile.

Quando ho aperto l’ultimo libro di Emanuele Arciuli, Viaggio in America. Musica coast to coast, recentemente uscito da Curci per la collana Correnti diretta da Carlo Boccadoro, pensavo di essere preparata a brevi sconfinamenti, perché conosco l’autore, un magnifico pianista che non provo nemmeno a definire per la difficoltà di racchiudere la sua finezza espressiva nella ristrettezza degli aggettivi.

Sapevo dunque di avere in mano un saggio sulla musica contemporanea americana e immaginavo anche che dovesse avere una stretta parentela con il diarismo dato che, di fatto, l’autore mi avrebbe parlato di musica statunitense attraverso la sua esperienza negli States. Non avevo previsto però che il sorprendente esecutore sarebbe stato capace anche di inchiodarmi alla sedia con continui strattoni. E, non da ultimo, non pensavo che leggendo di musica mi sarei potuta divertire al punto da ridere di cuore, a voce alta, come una scema, nella sala d’attesa di uno degli ospedali che ultimamente sono costretta a frequentare.

Ma andiamo con ordine. Arciuli è l’interprete di riferimento per molta nuova musica. Soprattutto musica americana, quella cioè che raramente si ascolta nelle nostre sale da concerto (sempre terribilmente eurocentriche quando si tratta di repertori e un po’ snob quando si prova a guardare dall’altra parte dell’oceano), quella scritta da autori eccezionali che pure, sciorinandone i nomi, restano dei perfetti Carneade anche per i nostri critici. Emanuele Arciuli la musica di questi autori la suona e la suona continuamente, nei più grandi teatri; e quei compositori ignoti a troppi li conosce, sono suoi amici ed è per questo che il suo Viaggio in America è un “saggio on the road” molto più di quanto si possa immaginare. Ma, nello stesso tempo è anche un piccolo mémoire in cui Arciuli (che, lo sapevamo già dai suoi libri precedenti, è ottima penna) ricorda le sue esperienze e rievoca incontri fondamentali con la schiettezza di cui soltanto i grandi sono capaci.

Con delizioso understatement, l’autore inframezza nel racconto battute fulminanti o taglienti come rasoi («pubblico curioso, due parole che, insieme, suonano sempre più come un ossimoro») ma in grado di strappare al lettore ben più di un sorriso, mentre Arciuli, deciso, lo porta per mano in un viaggio che inizia nella sua Bari (il giorno in cui recandosi a un concerto incontrò uno strano signore in calzini rossi che si sarebbe rivelato proprio il pianista che stava andando ad ascoltare, Joel Hoffman) ma che è ben lungi dal concludersi chiudendo l’ultima pagina del libro.

Sono scorribande da Cincinnati a Santa Fe, da New York a San Francisco, attraverso il suo amore per la musica e la cultura dei nativi americani e per terre che Arciuli rievoca consegnando al lettore i colori, i sapori, le mappe minime di realtà urbane in cui ha scovato un negozio di musica oggi scomparso; ha mangiato malsani snack con George Crumb davanti a un distributore automatico; ha parlato un inglese che definisce «terrificante» (irresistibile la conversazione telefonica in stile lost in translation cui scambia la parola hurricane per il nome di Uri Caine pensando di dover suonare al cospetto del grande musicista e non durante un uragano); nella città che non dorme mai ha visto palazzi ottocenteschi che gli sono stati mostrati come si trattasse di un Tirannosauro; è andato in giro di notte, in frack alla ricerca di un taxi o si è imbattuto in donne belle («pardon, bellissime», precisa a proposito di quelle di Miami).

Ogni tappa è segnata indelebilmente dagli incontri con i grandi nomi della musica americana: Frederic Rzewski (cui è dedicata anche un’intima postilla, stilata dopo la morte del musicista avvenuta il 26 giugno 2021), Curt Cacioppo, Joseph Horowitz (che firma anche la Prefazione al volume), Rick Whitaker, Marga Richter, Morton Subotnick, Joan La Barbara, Peter Gilbert e molti, davvero molti altri. Ma ogni tappa apre anche al lettore un universo sconfinato di ascolti (alcuni dei quali è possibile fare grazie alla playlist fruibile tramite QR-code), di informazioni, di considerazioni su quanto poco sappiamo di quella musica e quanto invece è necessario sapere. E in questo caso è la mano del musicologo a riempire le pagine, approfondendo e spiegando col garbo di chi sa e dunque sa spiegare nel modo più semplice.

Chiudendo il libro di Emanuele Arciuli ci si sente più ricchi: con lui si è imparato che esistono compositori che tutti insieme formano “catene di monti” e altri che sono invece “compositori-isola” ma, soprattutto si è scoperto o si è stati costretti a ricordare che «la musica è un processo» e «non esiste un brano che sia immutabile».

(Emanuela E. Abbadessa)

L’Intermezzo buffo rivive a Savona

Carlo Rosselli, giornalista, filosofo, storico, attivista antifascista, fondatore di “Giustizia e Libertà” che fu processato a Savona per l’emigrazione politica clandestina di Filippo Turati in Francia, organizzata, tra gli altri, anche da Sandro Pertini, era fratello di Nello Rosselli. I due nomi insieme appaiono tra quelli delle vittime del regime fascista: furono uccisi infatti il 9 giugno del 1937 dai cagoulards, assoldati dal SIM.

Nel 1926, Carlo aveva sposato l’attivista inglese Marion Cave e dal matrimonio nacquero due figli: la poetessa Amelia e John.

John Rosselli, scomparso del 2001, è stato un grande musicologo, con un particolare interesse per la storia sociale ed economica dei teatri sette/ottocenteschi e una vera passione per l’Opera italiana. Negli anni in cui scrisse la sua monografia su Vincenzo Bellini (l’edizione italiana uscì da Ricordi nel 1996) fu spesso a Catania, ospite a casa mia e di mio marito e di lui ho un magnifico ricordo.

Mi sono trovata diverse volte a citarlo perché ho amato particolarmente due suoi libri: L’impresario d’opera (EDT, 1985) e Il cantante d’opera (Il Mulino, 1993). Credo che pochi altri saggi, come questi, restituiscano le emozioni e, vorrei dire, gli odori di quei gloriosi templi della musica in cui si esibivano uomini vestiti da donna, castrati e primedonne pronte a tirare fuori dal corsetto cartigli con la loro aria di bravura; luoghi in cui si decretava il trionfo o il tonfo di un compositore così come di un impresario; in cui venivano assoldate claque per sancire il successo di un’opera nuova o schiere di fischiatori per demolirla. Sto parlando di quei teatri in cui la rappresentazione non era necessariamente la cosa più importante della serata perché, mentre un tenore sul palco si esibiva come protagonista di titoli che, nella maggior parte dei casi, sono oggi del tutto dimenticati, nei palchi, protetti dietro tende di velluto, si consumavano amori per lo più illegittimi.

In quei teatri si discuteva di politica, si siglavano accordi, con uno sbadiglio si poteva cambiare lo scacchiere politico e con un ventaglio si poteva rivelare un segreto inconfessabile. Questo è il teatro che dobbiamo immaginare di far rivivere a Savona assistendo a La furba e lo sciocco di Domenico Sarro. O Sarri?

Il nostro musicista, in effetti, nacque in Puglia, a Trani il 24 dicembre del 1679 come Sarro ma fu nel capoluogo partenopeo che il suo cognome venne declinato al plurale. Le notizie sulla sua giovinezza (ma anche sulla maturità) non sono moltissime. Sappiamo che, al contrario di molti suoi colleghi del tempo, non fu un compositore cosmopolita; sappiamo che fu il primo a mettere in musica un libretto di Metastasio (e ben altre fortune avrebbe avuto in seguito il poeta nel mondo dell’opera). E sappiamo anche che, giunto a Napoli, frequentò il Conservatorio di Sant’Onofrio in Capuana.

Per capire un po’ meglio quale fosse l’ambiente musicale di cui stiamo parlando, forse, vale la pena di spendere qualche parola sul sistema di educazione musicale a Napoli, all’epoca e lungo tutto l’Ottocento, soprattutto perché è da quell’ambiente che, per un verso o per l’altro, sarebbero venuti fuori i più grandi talenti musicali d’Italia.

Il Conservatorio di Musica di Napoli oggi si chiama San Pietro a Majella ma questo è soltanto l’ultimo dei conservatori napoletani, in ordine cronologico, che ha riunito le gloriose scuole musicali cittadine. Queste erano nate nel periodo della dominazione spagnola e si trovavano a Napoli perché Napoli era sede di vicereame già dall’inizio del XVI secolo. Erano: Santa Maria di Loreto (il più antico, uno dei suoi allievi più celebri fu Domenico Cimarosa), la Pietà dei Turchini (tra i suoi allievi ci furono Tritto, Leonardo Leo, Gaspare Spontini), I Poveri di Gesù Cristo (che ebbe come allievi Porpora, Leonardo Vinci e Pergolesi) e, appunto, Sant’Onofrio in Capuana dal quale, oltre al Nostro, uscì per esempio Giovanni Paisiello. Erano scuole musicali di grande prestigio, nate inizialmente come orfanotrofi, in realtà pochi dei ragazzi che vi si trovavano erano senza genitori; ne venivano fuori compositori ed esecutori per il repertorio sacro ma alimentavano anche il campo del genere profano.

Ultimo in ordine cronologico perché nato nel 1806 fu il San Sebastiano in cui, grazie a una borsa di studio di 36 onze annue concessa dal Decurionato catanese, studiò Vincenzo Bellini.

E dato che stiamo parlando di edifici, di luoghi in cui si faceva musica, direi subito qualcosa sul Teatro di San Bartolomeo in cui, il 7 gennaio del 1731 andò in scena per la prima volta La furba e lo sciocco di Sarro su libretto di Tommaso Mariani.

Il San Bartolomeo fu il principale teatro d’opera napoletano fino alla costruzione del San Carlo che avvenne nel 1737. Era stato costruito nel 1620 accanto alla chiesa omonima, dall’Ospedale degli Incurabili in modo che i proventi degli spettacoli ospitati avrebbero potuto accrescere le entrate per il nosocomio. Nel corso della sua storia ha ospitato le prime rappresentazioni delle opere più importanti del tempo. Nel 1681 fu distrutto da un incendio; in due anni venne ricostruito e, il 5 settembre del 1733, ospitò l’opera di Pergolesi Il prigioniero superbo che, come Intermezzo buffo, aveva la celeberrima Serva padrona, destinata a sopravanzare del tutto, in fama, l’opera seria alla quale era legata e a diventare, nel tempo, il prototipo stesso dell’Intermezzo.

Dunque, torniamo per un attimo a quegli ambienti ovattati, a volte caciaroni, pubblici e intimi allo stesso tempo che ci ha descritto così bene John Rosselli nei suoi libri. Ambienti in cui, senza parere, a metà tra boudoir e sala del Consiglio, si scriveva la piccola e la grande storia. Il pubblico dell’epoca era ancora composto per la maggior parte di nobili e ricchi e i temi delle opere erano infatti di giusta misura per quei frequentatori. Ecco qualche titolo andato in scena al San Bartolomeo: Il Teseo, o vero L’incostanza trionfante di Francesco Provenzale, L’Edmiro creduto Uranio di Giuseppe Tricarico, Caligula delirante di Filippo Acciaiuoli, Il Pirro e il Demetrio di Alessandro Scarlatti, Aiace di Francesco Gasparini, Tito Manlio di Luigi Mancia, Silla di Francesco Mancini, Flavio Anicio Olibrio di Nicolò Porpora, Armida al campo di Domenico Sarro, Publio Cornelio Scipione di Leonardo Leo, Gerone tiranno di Siracusa di Johann Adolf Hasse, La Salustia di Giovanni Battista Pergolesi, L’umiltà esaltata di Albinoni, ecc. Per la maggior parte opere serie, per la gran parte opere dimenticate o quasi, a meno di moderni repêchages, e comunque opere di una certa lunghezza in termini di tempo.

Ebbene, per spezzare la tensione delle rappresentazioni serie, all’incirca negli anni Trenta del Settecento, venne in uso l’introduzione di uno o due Intermezzi buffi tra gli atti di queste opere. Momenti divertenti rappresentati da operine di breve durata con due protagonisti (a volte tre o due con un figurante muto). Spesso lo stesso Intermezzo poteva essere usato per opere diverse e i temi, in linea di massima, erano mutuati dalle situazioni sceniche della commedia dell’arte. Per queste caratteristiche, negli anni, gli Intermezzi finirono con l’avere molta più fortuna delle opere serie a cui erano associati.

E arriviamo così a La furba e lo sciocco che era appunto l’Intermezzo nell’opera Artemisia.

All’atto di mettere in scena oggi un Intermezzo, si pongono soprattutto de problemi: la debolezza drammaturgica del libretto e la scarsa durata. Ma, al di là del fatto che si tratta di testi molto divertenti, la necessità di riproporli sta negli elementi di interesse storico che racchiudono.

Nel caso de La furba e lo sciocco, per esempio, è interessante il contesto partenopeo nel quale nacque. Nel lasso di tempo in cui Sarro operò, a Napoli stavano succedendo molte cose: dalla presenza degli austriaci al passaggio a Carlo III Borbone che nel 1734, durante la guerra di successione polacca, al comando dell’armata spagnola, aveva conquistato il Regno di Napoli sottraendolo alla dominazione austriaca. Carlo III inaugurò a Napoli un periodo di rinascita politica, di ripresa economica e di grande floridezza culturale. Sul piano economico, per esempio, forte di quanto era avvenuto a Livorno per arricchire il porto toscano, invitò gli ebrei a stabilirsi nel Regno per accrescere il flusso di investimenti sul porto; firmò patti di commercio con Svezia, Danimarca e Olanda; fondò scuole per la produzione di manufatti artistici coma la Real Fabbrica degli Arazzi, il Real Laboratorio delle Pietre Dure e la Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. Volendo rivaleggiare in magnificenza con Versailles, nel 1751 decise l’edificazione di una residenza reale a Caserta dove già esisteva un padiglione della caccia. Sotto Carlo iniziò la stagione degli scavi a Ercolano e Pompei per riportare in luce le antichità romane e, naturalmente, anche sulla musica la sua presenza ebbe degli effetti. Fu lui ad affidare a Giovanni Antonio Medrano e Angelo Carasale il compito di costruire un grande teatro d’opera per sostituire il piccolo San Bartolomeo, ormai inadeguato per una capitale europea. Così nacque il Real Teatro di San Carlo che fu inaugurato proprio il 4 novembre, giorno onomastico del re.

Quindi, per rendere questa temperie culturale e, soprattutto, il passaggio cruciale tra un’epoca e l’altra, Matteo Peirone che è regista di questa rappresentazione e ha curato la drammaturgia del testo, oltre all’inserimento nell’intermezzo di personaggi come lo stesso autore, Sarro, e come Carlo Cerere, compositore e acclamato mandolinista (per noi interpretato da Carlo Aonzo), ha utilizzato il noto sistema dell’Aria da baule, pratica abituale all’epoca di Sarro. Per esempio, il duetto finale che sentirete, è “rubato” proprio a La serva padrona.

L’idea della rappresentazione è quella di trasportare il pubblico dall’interno del Teatro Chiabrera di Savona, all’interno del Teatro San Bartolomeo di Napoli, nel 1731. Accompagnatori per questo viaggio nel tempo saranno proprio Sarro e Cecere.

La trama, come avrete capito, diviene, a questo punto, meno importante. Si tratta della solita storia della donna scaltra – la Furba, appunto – Madama Sofia, che, costretta dalla povertà, cerca un marito nobile e ricco – in questo caso lo Sciocco, il Conte Barlacco.

Come spesso avveniva all’epoca, i nomi mettono sull’avviso il pubblico rispetto ai caratteri dei personaggi (ricordate il nome della serva padrona? Era Serpina). Qui la protagonista è Sofia e sophia in greco significa sapienza.

All’epoca in cui andò in scena, il successo dell’Intermezzo fu legato soprattutto alla musica, in grado di rendere particolari effetti comici.

Qui a Savona troveremo anche altri motivi di interesse, nella possibilità di far rivivere la sensibilità e le atmosfere di un tempo ormai perduto.

(Emanuela E. Abbadessa)

Menotti e la modernità

Emanuele Arciuli, nel suo La bellezza della Nuova Musica, ha scritto una frase che mi ha divertita e mi è piaciuta al punto che ho finito per citarla varie volte, in diverse occasioni in cui mi sono trovata a parlare di musica. Ecco quanto: «Molte persone sono ancora convinte che la musica classica sia eseguita da musicisti – auspicabilmente vivi – che evocano compositori defunti, ignorando che esiste qualche decina di migliaia di compositori viventi, e anche in ottima salute.»

Se la cosa è vera per la musica strumentale, lo è a fortiori per l’opera. I più, per ragioni che non vorrei indagare in questa sede, considerano l’opera lirica, nel migliore dei casi, un patrimonio del passato. Di un passato da rievocare attraverso l’estenuante ripresa di una decina o poco più di titoli (sempre quelli, il cosiddetto “repertorio”) nei quali a cambiare sono soltanto gli interpreti e le più o meno fantasiose regie. Nulla di male (o di troppo male) in tutto questo, intendiamoci, ma sarebbe carino se, ogni tanto, queste stesse persone considerassero che l’Ottocento è stato il secolo di maggior splendore per l’opera lirica e non il solo ad averne prodotta.

Certo, le ragioni socio-culturali e politiche che resero così importante il melodramma nell’Ottocento sono venute a mancare ma ciò non significa che l’opera, come molte altre forme musicali, non sia sopravvissuta e che, anzi, non abbia ancora qualcosa da dire. Solo restando in ambito italiano sono centinaia i nomi di musicisti a noi contemporanei che scrivono opere e che potremmo citare. La qual cosa dovrebbe quanto meno far nascere il sospetto che se anche questi compositori fossero folli nel pervicace intento di dedicarsi al melodramma, nella loro follia dovrebbe pur esserci un metodo, per dirla con Shakespeare.

Tutto è quasi risibile dato che l’opera della quale sto per parlare non è nemmeno così moderna come la premessa giustificherebbe, anzi. Fu scritta infatti nel 1946 e per me, francamente, settantacinque anni sono un’età di tutto rispetto.

A scriverla fu Gian Carlo Menotti, persona che al teatro ha dato molto e sul quale val la pena di spendere qualche parola. Era nato a Cadegliano Viconago nel 1911 e morì a Montecarlo nel 2007. Fu autore televisivo, regista, musicista, librettista e fondatore nel 1958 del celeberrimo Festival dei Due Mondi di Spoleto, del quale inventò anche una versione americana, in Carolina del Sud, che si chiamava Spoleto Festival USA, e una australiana a Melbourne. Dal 1993 diresse l’Opera di Roma e, tra le varie onorificenze, nel 1981 fu nominato Cavaliere di Gran Croce.

In musica fu un talento precoce, a 7 anni componeva canzoni e a 11 scrisse libretto e musica della sua prima opera, La morte di Pierrot. Nel ’23 entrò al Conservatorio di Milano. Su consiglio di Toscanini si trasferì negli Stati Uniti e si iscrisse al Curtis Institute of Music di Philadelphia. Fu allievo di Rosario Scalero insieme a Bernstein e Samuel Barber con il quale lavorò in seguito a diverse opere e per il quale scrisse il libretto di Vanessa che ottenne il Premio Pulitzer (ne avrebbe vinto uno tutto suo con The Consul, del 1950, e con l’escamotage di avere la cittadinanza americana per un giorno – quello per consegna del premio – dato che il riconoscimento può essere attribuito soltanto a cittadini americani e lui non voleva rinunciare allo status di cittadino italiano).

Proprio al Curtis si dedicò a una delle sue opere più famose, Amelia al ballo (1937). Tra questa e le successive, c’è un lungo periodo di lavoro matto e disperatissimo su libretti, balletti, testi, opere radiofoniche e concerti (il Concerto per pianoforte e orchestra è del 1945).

Così arriviamo finalmente a La medium. Titolo quanto mai opportuno in un momento in cui nel nostro Paese si dibatte tanto di scienza e, soprattutto, in cui i social hanno dato un megafono alle chiacchiere da bar alla quali qualcuno ha finito per fare lo stesso credito che si dà alla medicina ufficiale. Parla da solo l’ultimo rapporto del Censis che fotografa un’Italia sempre più credulona (o ignorante, fate voi): il 12,7% degli Italiani considera la scienza dannosa, il 19,9% pensa che il 5G sia un sistema di controllo delle menti; per il 56,5% esiste una casta mondiale (una specie di Spectre, immagino) che controlla ogni cosa nel mondo; il 10% non crede che l’uomo sia mai andato sulla Luna e il 5,8% che la Terra sia piatta.

Dunque, giunge al momento giusto un titolo come La medium. Perché, in effetti, quest’opera, parla del mondo dell’occulto, dell’immateriale, del non scientificamente provabile e lo fa con una cifra a tratti grottesca tutta sua che trova rispondenza in un’esperienza dello stesso Menotti.

Nel 1936, infatti, Menotti e Barber erano stati invitati a cena da una nobildonna inglese che, nel corso della serata, aveva organizzato una seduta spiritica per evocare l’anima della figlia morta adolescente. Nel tempo, era rimasto A Menotti il desiderio di riproporre le atmosfere di quella sera attraverso la musica. L’occasione gli venne dieci anni dopo quando l’Alice M. Ditson Fund della Columbia University di New York gli commissionò il progetto. La prima rappresentazione del titolo, per il quale Menotti, come d’uso, aveva realizzato sia il libretto che la musica, avvenne dunque in ambito non professionale (era l’8 maggio 1946). Per una rappresentazione con professionisti occorse un altro anno quando The Medium andò in scena insieme a un altro suo titolo, The Telephone, all’Heckscher Theater di New York il 18 febbraio del ’47. Il successo ottenuto spinse l’autore a prepararne una seconda versione leggermente ampliata, presentata all’Ethel Barrymore Theater di Brodway il 1° maggio del ‘47.

L’eco del successo giunse anche da questa parte dell’oceano e la prima italiana si tenne a Genova, con la regia dello stesso Menotti, nel 1949.

Del 1951 è la sua versione cinematografica (che fu anche presentata al Festival di Venezia) realizzata con l’aiuto di Alexander Hammid e l’interpretazione di Anna Maria Alberghetti. Da allora, l’opera ha avuto centinaia di riprese.

La versione italiana del libretto fu realizzata da uno dei massimi sostenitori di questo titolo, Fedele D’Amico.

Il testo si muove sul doppio binario verità-finzione o, come avrebbe detto Pirandello, “così è, se vi pare” e, attraverso il personaggio della protagonista, mostra in tutta la sua attualità quanto certe convinzioni possano renderci vittime di noi stessi, dei nostri stessi comportamenti.

I due atti dell’opera, sul piano drammaturgico, funzionano benissimo, hanno un ritmo rapido e una durata ridotta (circa un’ora).

Sarebbe un errore cercare ne La medium qualche traccia musicale della produzione lirica italiana di poco precedente; per trovare qualche “risonanza” bisogna piuttosto pensare all’espressionismo, all’immediatezza nella rappresentazione delle situazioni e alla capacità di accostare momenti in cui le dissonanze tendono spiazzare l’ascoltatore immettendolo nel mondo dell’occulto e altri in cui le melodie si fanno godibili come valzerini (è il caso appunto del valzer di Monica nell’atto secondo).

E veniamo alla trama.

Siamo nel salotto della medium: lì stanno giocando Monica, figlia di Madame Flora, e Toby, un giovane servitore muto salvato “dalle strade di Budapest”. Giunge ubriaca Flora, detta Baba, e rimprovera aspramente i due per non aver preparato la seduta spiritica che si sarebbe tenuta quella notte.

Arrivano quindi gli ospiti della serata; i coniugi Gobineau e la signora Nolan, una vedova, che partecipa per la prima volta a una riunione del genere. Flora entra in trance (o così fa credere) e la signora Nolan parla con quella che pensa essere l’anima della figlia morta a sedici anni. In realtà si tratta di Monica che, nascosta dietro un paravento, si finge lo spettro. Uscita di scena Monica, la signora Nolan si precipita verso la figura ma viene trattenuta dai Gobineau. La situazione si calma e Mr. e Mrs. Gobineau entrano in comunicazione con il defunto figlio Mickey, morto a due anni, che non riesce a smettere di ridere. Salutato anche Mickey, la signora Flora si porta le mani alla gola sentendo la presenza di un fantasma che la stringe. Terrorizzata invita gli ospiti ad andarsene. Richiama quindi Monica chiedendole cosa abbia sentito e incolpa Toby di essere rimasto nell’altra stanza e non averla aiutata.

Tentando di calmare una furia acuita dall’alcol, Monica intona una ninna-nanna presto interrotta da una voce udita da Baba. La donna va su tutte le furie e se la prende ancora con Toby che non sa dirle da dove provenga la voce.

Il primo atto si chiude sulla voce di Monica che riprende la ninna-nanna mentre la madre recita l’Ave Maria.

Quando si apre il sipario sul secondo atto, è passato qualche giorno e Toby sta realizzando uno spettacolo di marionette per Monica: i due ragazzi si sono innamorati. Rincasa Baba che ricomincia ad accusare il giovane di non saperle dire cosa sia successo la notte della seduta spiritica.

Giungono ancora gli ospiti per un’altra sessione a colloquio con le anime dei defunti ma Flora cerca di allontanarli dicendo loro di essere un’imbrogliona, che tutto è una farsa montata grazie ai trucchi che lei elabora con Monica. Gli ospiti non ne sono convinti, pensano piuttosto che potrebbe essere soltanto una sensazione della medium e che questa, in realtà, non inganna nessuno.

Usciti di scena gli ospiti. Baba caccia via Toby malgrado Monica la supplichi di lasciarlo restare. Madre e figlia restano sole, Baba si versa da bere e si domanda se non stia impazzendo. Si addormenta e Toby, approfittando del suo sonno, torna per cercare di entrare in camera di Monica. La trova chiusa a chiave e decide di cercare il suo tamburo ma, muovendosi di soppiatto nella stanza, sveglia Baba. Per non farsi scoprire, il giovane si nasconde nel teatrino delle marionette ma i rumori insospettiscono la medium che vuole capire di cosa si tratti. Impaurita e fuori controllo prende la sua pistola e: “Chi è? Parla o sparo!”. Toby fa muovere il sipario del teatrino e Baba spara alcuni colpi.

Il corpo di Toby cade afferrando la tenda e Baba esulta per aver ucciso il fantasma. La figlia, uditi i colpi di pistola, accorre e vedendo il cadavere del ragazzo gli si getta addosso mentre il sipario cala e la medium sussurra: “Sei stato tu?”

Probabilmente Menotti non fu un compositore geniale ma era un abilissimo uomo di teatro e un valido musicista, capace di mettere insieme momenti musicali di grande presa e situazioni dal ritmo “cinematografico”. Su di lui la critica si è spesso divisa: Paolo Isotta lo ritenne un mediocre e certi ambienti, come quello scaligero, lo hanno sempre snobbato. Fatto sta che il tempo e il numero di allestimenti delle opere di Menotti parlano da soli: il pubblico continua ad amarlo perché parlava una “lingua comune” e molto personale; trattava i temi della modernità, dall’incomunicabilità alle tecnologie, dalle dittature all’ignoranza dei creduloni; perché ebbe il coraggio di essere controcorrente in un periodo in cui le avanguardie spingevano sempre più avanti i limiti; perché intuì le potenzialità dei nuovi media e perché aveva una grande capacità di elaborazione melodica e probabilmente, figlio del suo tempo, trovò nella misura dell’opera breve il suo campo di battaglia preferito.

(Emanuela E. Abbadessa)

Lettera sui legami con la memoria

Caro amico,

mi è capitato spesso di imbattermi in storie che affondano le loro radici nel passato dei siciliani. Alcune di queste hanno a che fare con la musica e, forse, vale la pena di salvarle dall’oblio e raccontarle. Comincio con quella dei fratelli Li Causi con un articolo a mia firma apparso sulle pagine siciliane del quotidiano “La Repubblica” il 10 dicembre 2021 con il titolo La storia ingiusta dei fratelli Li Causi e Vitti ‘na crozza.

Devotamente

EE.

Un tratto riconosciuto ai Siciliani è il legame con la memoria, un bisogno di tenere i piedi fermi nel passato consegnato dagli avi. Come se su una terra retta dalle braccia adolescenti di Colapesce, non ci sia certezza di stabilità oltre quella che trae linfa dalle proprie radici. Su questo si fonda la tradizione dei cantastorie, dei cunti e, soprattutto, la musica che sempre – dalla canzone all’opera – diviene essa stessa memoria.

Questa storia parla di due fratelli e di un canto. Volendone datare l’inizio, potremmo partire dal 1939, quando il Quintetto Li Causi vinse il Concorso mandolinistico nazionale di Catania surclassando l’ensemble di Giovanni Gioviale, arrivato secondo. O potemmo andare indietro e usare il giorno della nascita di Franco Li Causi: siamo a Porto Empedocle il 20 aprile 1917 quando l’uomo che, per vie traverse, finirà con l’essere riconosciuto autore di una delle più celebri canzoni siciliane, Vitti ‘na crozza, emette il suo primo vagito. Se il suo nome, negli anni, sarà sempre associato agli strumenti a plettro e accostato a quello del fratello Salvatore (in arte Tony Lusi, per gli amici Totò), con Franco siamo di fronte a un musicista con le carte in regola che, diplomatosi in flauto al Conservatorio di Palermo, solo in seguito avrebbe espresso il suo virtuosismo su chitarre, banjos e mandolini.

Da veri musicisti, i fratelli Li Causi diedero vita a un’orchestra che per oltre trent’anni animò la Lanterna e la Focetta di Agrigento ma anche navi da crociera, feste di piazza, matrimoni e battesimi, night, balere e sale da concerto. Le loro note hanno accompagnato Jimmy Fontana, Tony Cucchiara, Iva Zanicchi e Giuni Russo e sono state incise in oltre duemila tra tanghi, fox-trot, boogie e brani d’ispirazione popolare.

Degli anni in cui i Li Causi erano in auge, c’è chi ricorda ancora che in ogni casa dell’agrigentino si suonavano i loro dischi e le loro note si riversavano nelle strade. Altri li conobbero nelle botteghe di barbiere, luoghi d’elezione per gli amanti del plettro in cui, tra calendarietti profumati un po’ osé e rasature, si trascorreva il tempo con chitarre e mandolini.

Accanto a Franco c’era Totò. Lui era anche liutaio (come il padre Pietro) e, come rivela il figlio, i suoi strumenti se li era sempre costruiti da solo. Musicista di grande precisione (si era diplomato in chitarra), era legatissimo alla scrittura musicale che onorava allo spasimo, fino al punto da portare una tradizione altrimenti orale o parzialmente tale in tutto il mondo, bandiera di una sicilianità nobile e autentica.

Il 4 giugno 1980 Franco Li Causi venne a mancare e, proprio quel giorno, arrivò lo spartito di Vitti ‘na crozza in cui veniva attribuita al musicista la paternità del brano che molti si erano disputato. Era stata una battaglia legale lunga ma la Siae, infine, aveva restituito a Franco lo struggente inno di una sicilianità tenace che, in barba ai suoi “lalleru” (per altro aggiunti in un secondo tempo per rendere il brano più rispondente a una certa idea di folklore), è una delle pagine più intimamente legate alla memoria tragica di un’isola che non si arrende.

A creare il problema dell’attribuzione concorsero vari fatti: il testo della canzone proviene dalla tradizione e il momento in cui il destino di Vitti ‘na crozza si sarebbe incrociato con quello di Franco coincide col giorno in cui Pietro Germi, impegnato nelle riprese de Il cammino della speranza – film del 1950, tratto da Cuore negli abissi di Nino De Maria, presentato al Festival di Cannes nel ’51 e vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino – decise di incontrarlo e ascoltare la sua musica. La storia, a questo punto, si muove tra i racconti: pare che Germi non fosse rimasto colpito da alcun brano e, il giorno seguente, avrebbe chiesto a Franco di rivedersi sul set. Ma, recandosi a Favara l’indomani, il musicista sarebbe rimasto in panne e, chiedendo aiuto a un anziano contadino, ex minatore (Giuseppe Cibardo Bisaccia), gli sentì intonare i primi versi di Vitti ‘na crozza. Franco decise dunque di armonizzarli e l’“allegra-malinconia” del canto entrò nella pellicola di Germi. Fu incisa da Cetra nel ‘51 nell’interpretazione di Michelangelo Verso e da allora è stata eseguita anche da Modugno, Rosanna Fratello, Amalia Rodriguez, Alfio Antico, Gabriella Ferri, Carmen Consoli, Rosa Balistreri, Vasco Rossi, Laura Pausini ma, paradossalmente, il suo successo non ha portato a un riconoscimento dell’autore che non apparve nemmeno nei titoli di coda del Cammino della speranza.

Poco importa oggi se il cannuni sia un cantuni e se il testo si riferisca ai minatori (come ha dimostrato Sara Favarò) e non a un soldato o, come sostengono altri, a un comunista che non potrebbe entrare in chiesa per il funerale, perché la magia di questa canzone è racchiusa proprio nel ricorso alla memoria. Lo hanno ben presente Giuseppe Maurizio Piscopo e Antonio Zarcone e gli altri che hanno contribuito al volume uscito da Lilit, Vitti ‘na crozza, con il sostegno di Regione Siciliana e dei Comuni di Agrigento e Porto Empedocle. Dai curatori a Marco Betta, che in prefazione parla dell’eredità di chi ci ha consegnato storie, immagini e visioni capaci ricordarci da dove proveniamo; da Tom Sinatra, allievo prediletto ed erede spirituale dei due fratelli, che ancora esegue le musiche dei Li Causi (un suo cd è allegato al volume) perpetuandone il ricordo, ai loro figli che hanno condiviso i ricordi più teneri.

Un teschio racconta, chiede pietas al viandante e dicendo di sé attinge al passato che deve essere perpetuato, perché solo in esso possono essere trovate le risposte per il presente. Perché se un popolo non ricorda la sua musica, perde anche gran parte della sua storia.

(Emanuela E. Abbadessa)

Le seduzioni della voce femminile

In principio fu il canto delle sirene.

Erano figlie del dio fluviale Acheloo e di Melpomene, la Musa della tragedia, inquietantemente raffigurate con il corpo metà donna e metà pesce. Soltanto di recente, complici i film di animazione, hanno preso le sembianze di ragazzine graziose e per nulla pericolose.

A metterci in guardia dalle seduzioni del loro canto – e dunque della voce femminile – è Omero nel XII libro dell’Odissea. Lo fa per bocca di Circe. È lei a spiegare come questi esseri dal volto affascinante sappiano attirare con il loro canto arcano gli uomini che attraversano le acque, per poi divorarli e riempire le scogliere con le loro ossa.

A Ulisse, l’eroe viaggiatore, e alla sua ciurma non resta altro da fare che modellare con la cera dei tappi per le orecchie, per resistere al canto ammaliatore. O almeno così sarebbe dovuta andare. Il perché lo spiegherà molti secoli dopo Dante Alighieri che, con il celeberrimo verso “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, XXVI canto), usa proprio il personaggio di Ulisse per esprimere le sue idee sull’importanza della conoscenza. Una conoscenza che si deve esperire anche quando essa è pericolosa, con un’ansia di ricerca che può essere portata oltre i limiti estremi.

Ulisse, infatti, spinto dalla sete di conoscenza, tappa le orecchie ai suoi marinai e decide di essere il solo a poter ascoltare quel canto, protetto però dal desiderio di seguirlo grazie all’espediente dell’essersi fatto legare a un albero della nave. È allora che le sirene lo invitano a restare con loro ed è lui a doversi opporre alla loro seduzione.

Nel nostro immaginario, dunque, le sirene sono quasi del tutto donne. E a questo proposito potremmo ricordare un’icastica scena de La pelle di Curzio Malaparte, ben resa nella sconvolgente pellicola di Liliana Cavani del 1981. Mi riferisco al pranzo del Generale Cork in cui viene servito come pesce un mammifero acquatico (la cosiddetta “sirena dell’acquario di Napoli”, un sirenide dunque un dudongo o un lamantino) e i commensali, sconvolti, pensano di avere davanti una bambina morta. Questi mammiferi, infatti, hanno occhi particolarmente espressivi e le femmine, allattando i piccoli, sono dotati di mammelle simili a quelle umane. Da questo e dalla capacità dei mammiferi marini di emettere richiami acuti, deriverebbe probabilmente il mito stesso delle sirene.

Le donne, d’altra parte, streghe o madonne, sembrano conservare nei secoli la loro capacità di ammaliare, sedurre fino al punto di far perdere il senno agli uomini. Ma, fino a un certo punto, le sirene furono rappresentate come chimere, ossia mostri leggendari con corpi formati da parti di diversi animali. A donare loro la seduzione di un busto femmineo avvenente – esposto, per altro, cioè con il seno scoperto – fu il pittore inglese William Etty che in un suo grande olio su tela del 1837 dal titolo Ulisse e le sirene, le ritrae giovani e nude su un’isola in mezzo al mare, coperta di cadaveri e resti umani in vari stati di decomposizione.

E, in questo modo, abbiamo definito tutti i contorni del nostro discorso: la femmina seduce-la femmina seduce con la voce.

Per raccontarlo, ben si presta il programma messo a punto da Anna Maria Chiuri e Andrea Severi che rappresenta questo viaggio della voce di donna attraverso i secoli, una voce capace di ammaliare l’uomo facendo ricorso a un’intera tavolozza di emozioni che spaziano dal rimpianto al sospiro. Sospiro sensuale, s’intende.

Queste emozioni prendono dunque la forma di Arie e Romanze, inserite all’interno di opere o nate per l’esecuzione “da salotto”, dunque con pianoforte.

Il nostro viaggio inizia dal rimpianto con una pagina, “Queste lagrime e sospiri”, tratta dall’Oratorio San Giovanni Battista di Alessandro Stradella (Bologna, 1643 – Genova, 1682) e, naturalmente, sono ben altri i sospiri di cui si parla, come quelli che ci riserva Luigi Cherubini (Firenze, 1760 – Parigi, 1842) in “Solo un pianto”, tratto dalla sua Medea.

Ma l’attimo in cui saremo più vicini a quel pericoloso canto delle sirene pronte a fare carne informe degli uomini che le ascolteranno, sarà quello in cui ascolteremo una delle pagine più erotiche della storia musicale europea: il momento in cui Dalila seduce Sansone con le sue arti. L’aria è “Mon cœur s’ouvre à ta voix” tratta appunto da Samson et Dalila opera in tre atti su libretto di Ferdinand Lemaire che Camille Saint-Saëns (Parigi, 1835 – Algeri, 1921) scrisse tra il 1875 e il 1876 e che andò in scena per la prima volta in lingua tedesca al teatro Granducale di Weimar il 2 dicembre del 1877 con la direzione di Eduard Lassen. Per un’esecuzione in francese si dovrà aspettare il 23 marzo del 1890 quando fu eseguita a Rouen riscuotendo una tiepida attenzione, in contrasto con il successo che aveva contraddistinto la prima tedesca. Il testo è ispirato dal celebre episodio biblico ma mi preme sottolineare proprio l’incipit di questo brano: “il mio cuore si apre alla tua voce”. Detta così sembra postulare l’esatto contrario di quanto abbiamo esposto fino a questo momento: Dalila, infatti, seduce Sansone proprio con l’erotismo del canto ma sposta il fuoco e rivela che a vincere il suo cuore sia la voce dell’eroe.

Nessun gioco di scambio di ruoli ma solo i giochi che per antonomasia vengono attribuiti alle donne, caratterizzano invece la protagonista di una delle più celebri chansons di Erik Satie (Honfleur, 1866 – Parigi, 1925), Je te veux. L’autore di questo testo straordinario e molto erotico è Henry Pacory e fu scritto, in tempo di valzer, per Paulette Darty, una cantante e attrice che fu soprannominata “la Reine des Valses lentes”.

Ma ho parlato di testi e dei loro significati, eppure quando penso alla vocalità femminile, ciò che mi viene in mente è qualcosa che con la comprensione del testo non ha nulla a che fare. Per spiegarvelo meglio utilizzerò un film diretto da Frank Darabont che uscì in Italia nel 1994 con il titolo Le ali della libertà (The Shawshank Redemption). Ne erano protagonisti Tim Robbins e Morgan Freeman. Il soggetto è tratto da un bellissimo racconto di Stephen King, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, contenuto nella raccolta Stagioni diverse.

La pellicola è ambientata in un carcere e nella scena di cui voglio parlarvi, Tim Robbins si trova nella stanza del direttore, quella con il microfono con cui vengono fatti gli annuncia ai detenuti. A un certo punto nota il giradischi del direttore, prende un 33 giri, lo posa sul piatto e sceglie un solco. Collega l’impianto al microfono e diffonde nel campo di detenzione una musica. I prigionieri sono all’esterno, durante l’ora d’aria, e vengono investiti da un canto sublime. A cantare sono due donne. Il fuoco si sposta dunque sui visi attoniti dei carcerati e la voce fuori campo di Morgan Freeman ci dice qualcosa: lui non sa cosa dicessero le due donne e non gli importa di saperlo, ma preferisce pensare che fosse qualcosa di così bello da non poter essere espresso con le parole; e quelle voci, capaci di librarsi tanto in alto come uccelli meravigliosi, per un istante, diedero a tutti i detenuti la sensazione di essere liberi.

Non ci sarebbe nulla di particolarmente notevole per il nostro discorso se non fosse che, chiunque abbia una minima cultura musicale e abbia visto quel film, sa bene che il brano diffuso dagli altoparlanti del carcere non parla di libertà, non è un canto d’amore e non parla di concetti tanto elevati da non poter essere resi con le parole. Si tratta infatti del duettino tra Susanna e la Contessa, “Che soave zeffiretto”, tratto da Le nozze di Figaro di Mozart che, al contrario, racconta il momento in cui le due ordiscono la burla finale ai danni del Conte di Almaviva, spingendolo a recarsi nel giardino per un convegno amoroso extraconiugale.

Ecco dunque il punto: questo è il potere della voce femminile, trasformarci tutti nel pubblico attonito di Shawshank a cui non importa altro che la maniera in cui un canto può sedurci e farci sentire liberi.

(Emanuela E. Abbadessa)

Come fu che Puccini decise di musicare La bohème

È una sera di fine giugno del 1894 e Giacomo Puccini si trova a bordo della nave con la quale sta lasciando la Sicilia.

Possiamo immaginare che sia una notte “dolce, chiara e senza vento”, come quella descritta da Leopardi nella Sera del dì di festa.

Perché, in questo momento, noi possiamo soltanto immaginare, appunto. E dato che non ci sono testimoni dell’incontro del quale vi parlerò e sul quale si è molto fantasticato, ci comporteremo da scrittori e cercheremo di dare parole al dialogo che non abbiamo ascoltato.

Puccini, dicevo, era stato in Sicilia, reduce dal successo di Manon Lescaut che, finalmente, lo aveva reso un uomo ricco: grazie ai proventi dell’affitto di Manon da parte dei teatri e all’onorario corrisposto dall’editore Ricordi che era stato raddoppiato, aveva potuto riacquistare la sua casa natale (perché voleva che restasse della famiglia) e aveva comperato anche una bicicletta ultimo modello nonostante, secondo le testimonianze dei suoi amici, spesso incerti fossero stati i suoi tentativi di cavalcarla.

A Palermo era stato accolto con tutti gli onori del caso: nobili veri e arricchiti dotati di una certa intraprendenza, come i Florio, se lo erano conteso. A lui, d’altra parte, tutta quella mondanità non dispiaceva.

A Catania, nel «mollame di quei giorni simpatici», come scrisse lo stesso Puccini, aveva incontrato nientemeno che Giovanni Verga e Federico De Roberto, i due apostoli del Verismo al quale, per altro, Verga aveva già dato (con molte obliquità e cause legali di mezzo) un testo che era diventato opera di grande successo, cioè quella Cavalleria rusticana musicata da Mascagni e pubblicata da Sonzogno che, con il suo sguaiato “Hanno ammazzato cumpari Turiddo”, diventò in breve tempo la testimone involontaria nel mondo di una Sicilia gretta, chiusa e sanguinaria, creando un immaginario collettivo dal quale ancora oggi la Sicilia cerca di liberarsi.

L’idea era quella di musicare un’altra novella verghiana, non meno cruda, non meno selvatica, La lupa. E a questo scopo, l’autore de I Malavoglia si era messo al lavoro proprio con De Roberto. La lupa, tratta da Vita dei campi (come Cavalleria rusticana), era la storia di una donna feroce, la gnà Pina. Feroce per la sua sensualità esposta, per il suo incontenibile desiderio sessuale, per i suoi modi così lontani da quelli di una “signora per bene”. La gnà Pina, per semplificare, era quella che si può definire una ninfomane. Come di Mimì, sebbene diametralmente opposta, “la storia sua è breve”. La figlia, Maricchia, è il suo esatto contrario: dolce, riservata, sensibile. Tra loro c’è Nanni, un bel ragazzo innamorato di Maricchia. Ma anche Pina lo è, ammesso che la foja possa dirsi amore. Decide così di dargli in sposa la figlia a patto che vadano a vivere da coniugi a casa sua. La cosa avviene ed è lì che Pina seduce il genero. Maricchia lo scopre e la denuncia, Nanni confessa davanti ai carabinieri l’adulterio dicendo che quella donna è una “tentazione dell’inferno”. Alla Lupa viene intimato di lasciare la casa dei due. Le cose si complicano e nulla ferma Pina che, anche dopo un terribile incidente occorso a Nanni, continua a braccarlo con profferte sessuali. All’uomo non resta altro da fare che ucciderla con una scure.

Puccini però, inquieto per natura, non era del tutto convinto del soggetto da far seguire a Manon. Con Illica aveva avuto qualche screzio che Ricordi aveva cercato di risolvere affiancando al poeta Giuseppe Giacosa (personaggio che di solito veniva chiamato per dirimere questioni sui diritti o sull’opportunità dei testi letterari) e, possiamo immaginare, provava la strana sensazione di sentirsi un po’ sul limite di quella moda che era appunto la musica verista: mai del tutto aderente e sempre con un occhio, sia pur italiano, alla maniera wagneriana dei motivi conduttori.

Fatto sta che, nei giorni trascorsi in Sicilia, Puccini aveva cominciato lentamente a perdere interesse per il testo di Verga e, nonostante le dichiarazioni di grande amicizia tra i due riportate da Alfredo Caselli sulle pagine de “La Nazione” di Firenze il 16 luglio 1894, già un anno prima, Verga stesso aveva scritto all’amico De Roberto: «Son persuaso che Puccini non sente quel dramma, e che perderemo il tempo inutilmente con lui».

Ma torniamo a quella sera forse “dolce, chiara e senza vento”. Proviamo a immaginare una scena: Puccini si trova sulla motonave che lo riporterà in continente e nota una donna. Cosa non inusuale per uno dei più celebrati seduttori della nostra storia musicale. È bionda, elegante, di bei modi. Ha un che di esotico, insomma. Puccini forse la riconosce perché è donna che non può non essere riconosciuta. O forse no e chiede – a un cameriere, forse? – il nome di quella dama silenziosa e riservata. Quel qualcuno, magari, gli sussurra a un orecchio che si tratta della contessa Gravina. E nella mente di Giacomo tutto diventa chiaro. Nella sala da pranzo, durante la cena, si alza, raggiunge il pianoforte al centro tra i tavoli e improvvisa una fantasia su alcuni temi del Tannhäuser. È la mossa giusta. La dama ne resta colpita e si avvicina al musicista per ringraziarlo. Ma perché mai ringraziare Puccini per aver eseguito musica di Wagner? Perché la dama in questione è nientemeno che Blandine Gravina, moglie del conte Biagio ma nata von Bülow: ovvero la primogenita di Cosima Liszt e del famoso direttore d’orchestra. Dunque è nipote di Franz Liszt e figliastra di Richard Wagner che, al momento del matrimonio con Cosima, decise di tenere con sé le figlie avute dal primo matrimonio della donna, facendosi addirittura chiamare papà da queste.

A questo punto i libri – che come noi non sanno cosa i due si dissero – si limitano a comunicarci che la contessa dissuase Puccini dal proposito di musicare il testo di Verga.

A me piace però immaginarla questa donna esile che passeggia sul ponte con il maestro. Forse si fermano a guardare la luna (e lì la luna, come Rodolfo e Mimì, “l’hanno vicina”) e, forse per frenare un fremito domanda: «a cosa state lavorando?». E penso a Puccini un po’ annoiato come si conviene a un flâneur fin de siècle che butta lì qualche parola sulla novella verghiana. E mi piace pensare che, negli anni in Sicilia, l’italiano da straniera di Blandine si fosse velato di una qualche cadenza sicula. «No, maestro, che brutto soggetto…», la immagino dire, lei così riservata, così attenta a tenere fuori la passione fin da quando a Palermo era stata oggetto, a quel che si dice, della corte di Ragusa, l’intraprendente parvenu, proprietario del Grand Hotel et des Palmes in cui la famiglia Wagner risiedeva e in cui il grande di Lipsia terminò il suo Parsifal.

Di quella sera sul mare “altro non saprei narrare” e, anche quanto detto, l’ho soltanto immaginato. Così possiamo fantasticare su Puccini che appena sbarcato nel continente, ripensa a un differente soggetto sul quale da tempo ha in corso discussioni con Ricordi. Perché, sia detto, de La Lupa, poi, non se ne fece nulla e il libretto dei poveri Verga e De Roberto finì a Pierantonio Tasca, compositore di Noto che lo musicò ma del quale, a quanto pare, il tempo se non anche il pubblico ha fatto giustizia.

Fatto sta che il 13 luglio del 1894, mentre probabilmente Puccini ripensava a quel diavolo di Verismo, a Verga e alle parole di Blandine, scrisse una lettera al suo editore enumerando i difetti del testo verghiano e proponendo come nuovo soggetto La bohème. Come si suol dire, Ricordi non la prese bene e il 18 luglio rispose: «Non mi meraviglia la sua decisione, ma mi rattrista assai, assai. Ecco ancora molti mesi perduti, infruttuosi; né vedo una decisione forte, risoluta in lei anche per la Bohème…. Mi permetta però, caro Doge, che colla solita mia franchezza le osservi come abbia aspettato tardi ad accorgersi dell’eccesso di dialoghi nella Lupa dopo cioè aver cominciato a musicarla, dopo che i giornali persino annunciavano prossima la comparsa di quest’opera! Dopo il viaggio a Catania! Ma infine queste sono osservazioni ormai inutili… e auguro un biglietto per lei per un treno direttissimo che la conduca alla stazione di arrivo: La Bohème».

Alcuni motivi più o meno intimi lo spingevano verso le vicende degli squattrinati sognatori parigini. In primo luogo, il fatto che quelle vicende facete di studenti che vivono al freddo, Puccini le conosceva molto bene. Versato da sempre per l’arte e per le grazie muliebri, tenne sempre in massimo conto le amicizie maschili. Amava bere, fumare, raccontare storie scurrili e come tale visse i suoi anni di studio in un ambiente di giovinezza scapigliata che, da adulto, sarebbe confluito in quella sorta di cenacolo maschile che Giacomo e gli amici chiamavano “Club della bohème”. Le occupazioni, quelle che potete immaginare, e secondo Enzo Siciliano: briscola, vino, sigari toscani, caccia, racconti scurrili. Quei signori, infatti, erano fedeli a un breviario di otto regole che si erano dati e che, in breve, escludeva le donne, gli stomaci deboli, i musoni e la luce elettrica dato che – e cogliete il doppio senso – l’articolo 5 indicava i “moccoli” dei soci sufficienti per l’illuminazione.

E poi c’era la rivalità con Ruggero Leoncavallo, ovviamente. L’autore di Pagliacci non era solo rivale come musicista ma lo era come scuderia, essendo nel libro paga del grande nemico di Casa Ricordi, cioè Sonzogno, quello stesso editore che aveva mietuto successi fino a quel punto impensabili con la Cavalleria di Mascagni.

Tra Puccini e Leoncavallo il rapporto non era dei migliori: si erano conosciuti in occasione del semifiasco dell’Edgar milanese nel 1889 (le cronache parlarono di accoglienza cordiale ma non calorosa) e probabilmente quella non era la circostanza migliore per mettere di buonumore Giacomo. C’era poi il fatto che i due, circa un anno prima, si erano incontrati in un caffè a Milano, in Galleria, e, chiacchierando, avevano scoperto di lavorare entrambi sul testo di Henry Murger, Scènes de la vie de Bohème. Era nata così una disputa sulle colonne del “Corriere della sera” e del “Secolo” (giornale vicino a Sonzogno) sul diritto dell’uno o dell’altro riguardo al soggetto francese. Come se invece che contendenti si fosse trattato di nobili cavalieri, Puccini concluse con un secco: «Del resto cosa importa al Maestro Leoncavallo di questo? Egli musichi, io musicherò. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici.»

E così andò: Puccini si buttò nel lavoro “a corpo morto”, come scrisse e, come sappiamo, oggi la sua opera è una delle più rappresentate al mondo; quella di Leoncavallo, su libretto dello stesso musicista e, al più, una curiosità in cartellone.

Dunque, tra battibecchi con Ricordi e questioni di prelazione, Illica sul canovaccio e Giacosa sulla versificazione si misero pancia a terra per bruciare sul tempo Leoncavallo anche se va detto che Puccini sognava un libretto di D’Annunzio che però aveva chiesto per l’impegno l’esorbitante cifra di 40.000 lire. La storia, con tutti i ritardi del caso dovuti al fatto che il compositore era sempre insoddisfatto del libretto, ci consegna due date: Puccini debuttò al Regio di Torino il primo febbraio 1896 con la direzione di Arturo Toscanini (che poi avrebbe tenuto a battesimo Turandot, l’ultima opera del Lucchese con la celebre frase a interrompere l’esecuzione «a questo punto il Maestro è morto»), Leoncavallo a La Fenice di Venezia il 6 maggio 1897 con la direzione di Alessandro Pomè.

La vicenda narrata dal trio Puccini-Ilica-Giacosa credo sia nota a tutti, così come i suoi momenti musicali più celebri: “Che gelida manina” è diventato addirittura un modo di dire.

Quando mi trovo a raccontare questa storia a giovani e giovanissimi, nelle scuole, mi capita spesso di scoprire involontariamente tutte le piccole ambiguità della vicenda. Un plot che drammaturgicamente funziona e non funziona, non è come quel perfetto meccanismo a orologeria rappresentato da Tosca (che pure è firmato dagli stessi autori). Per intenderci, nel caso della vicenda di Mimì e Rodolfo, sarebbe impensabile una rappresentazione “nelle ore e nei luoghi”, così come è stato fatto appunto con Tosca.

Non stupisca se parlo di ambiguità. Ne svelo subito la ragione: la protagonista si presenta affermando che “la chiamano Mimì” ma il suo nome è Lucia, fatto piuttosto singolare dato che, in genere, Mimì è diminutivo di Domenica o giù di lì, non certo di Lucia; a Rodolfo dice di “fare fiori” e pare infatti che li ricami ma, quando poco dopo il giovane la presenta agli amici dice che lei è una “gaia fioraia”, cosa che a noi fa pensare piuttosto a un personaggio uscito da un corteo del Gay Pride. Da Parigi, senza alcuna spiegazione, ci troviamo catapultati nell’inverno greve della Barriera d’Enfer dove certamente Marcello, riconciliatosi con Musetta (è una cantante a quanto pare, ma noi l’avevamo scambiata per una mondaine dopo il suo celeberrimo valzer e la noncuranza nello scoprire la caviglia al Café Momus), fa il pittore e ritrae i viaggiatori di passaggio. D’un tratto arriva lì Mimì che sta male, ha la tosse ed è anche abbigliata in modo inadeguato per quei rigori dunque: come diavolo è arrivata in un posto così disagevole? E di nascosto da Rodolfo evidentemente, che giunge poco dopo abbastanza turbato. Nell’accorata confidenza a Marcello, Mimì dice che Rodolfo la ama troppo, cioè al punto da essere possessivo e geloso e sospettare amanti in ogni momento. Ora: noi nella scena precedente abbiamo visto una Mimì innamorata, pudica al punto da sconvolgersi per i modi disinibiti di Musetta. Però, a pensarci bene, Mimì è la stessa ragazza che si è introdotta a sera, sola, a casa di un uomo solo e, forse, quel lume che chiedeva di accendere entrando e che poi si spegne una seconda volta (doveva esserci un vento degno di Trieste in quella soffitta!), potrebbe averlo spento lei stessa, sbadata com’è e adusa a perdere le chiavi di casa. In quel dialogo, infatti, senza parere, a uno sconosciuto nella cui casa si è introdotta, ha fatto sapere che vive “sola soletta”, che non va spesso a messa e gli ha anche indicato dove sia casa sua… se non è una proposta questa non so cosa lo sia, mancava soltanto che lo invitasse a vedere la sua collezione di farfalle. E, dunque, forse Rodolfo ha qualche ragione per dubitare della sua morigeratezza, tant’è vero che poco dopo rivela all’amico: “Mimì è una civetta che frascheggia con tutti”. Ma non è vero, in realtà è malata, sebbene a noi vien da dire che si può essere nello stesso tempo sia malate che civettuole. Ma no, non è una civetta, ce lo giura Musetta quando dice alla Madonna che Mimì è una santa assai più degna di vivere di lei stessa. Della civetta però mantiene certe astuzie tutte femminili e, persino da moribonda, quando le basterebbe chiedere agli astanti di lasciarla un po’ sola con Rodolfo, finge invece di dormire per restare sola con lui.

Quindi, siamo davanti a una novità per le scene liriche: siamo cioè di fronte a personaggi complessi che sono tutto e il contrario di tutto, esattamente come noi. E dunque sono veri. Questa, probabilmente, è la grande lezione verista di Puccini che non aderisce agli urli scomposti dei colleghi, agli accoltellamenti e ai morsi all’orecchio, ma ci fornisce un “vero reale”, e scusate il bisticcio.

E se anche la trama non funziona come un meccanismo perfetto, la ragione si trova proprio nel bisogno di vero. I librettisti, infatti, ci mettono subito sull’avviso: non ci troviamo al cospetto della solita trametta raccontata nella sua linearità, gli atti de La bohème si chiamano “quadri” e questo non è secondario.

Per spiegarvelo vorrei usare un’immagine di mio marito, Salvatore Enrico Failla che fu il mio professore e anche l’uomo dal quale ho imparato quasi tutto ciò che so sulla musica: è come se la vicenda dei nostri sei giovani si svolgesse da qualche parte, indipendentemente da noi spettatori e a noi non venisse concesso altro che aprire di tanto in tanto una finestra sulle loro esistenze e dare un’occhiata. Apriamo la prima finestra e vediamo una soffitta, dei giovani intenti a organizzare la vigilia di Natale poi una ragazza incontra un ragazzo ed è colpo di fulmine; ne apriamo un’altra e i ragazzi sono felici al Quartiere Latino; nella successiva è passato del tempo, li vediamo alle prese con i problemi di coppia e con i più gravi casi della vita, la povertà, la malattia, il distacco; all’ultima finestra scopriamo infine che quest’opera è, in effetti, un’idealizzazione della memoria giovanile di Puccini, quella fatta del “freddo becco” di cui scriveva a casa e di tasche vuote, di borborigmi e di “sogni, chimere e castelli in aria” nei quali solo “l’anima è milionaria”. Li vediamo un po’ più adulti, quando il peso dei problemi veri fa piegare la schiena e la morte, inattesa, sopraggiunge costringendoli a un bagno doloroso di realtà dal quale usciranno, probabilmente, tutti più maturi.

Quasi tutti. Mimì la lasceremo sulla scena, con il suo manicotto a riscaldare una manina che resterà per sempre gelida.

Emanuela E. Abbadessa

La battaglia per il vaccino

Questa è una storia molto lunga e racconta complicazioni burocratiche davanti alle quali il Castello di Kafka sembra un parco giochi della Disney. Cercherò quindi di riportarla nel modo più stringato possibile ma senza omettere nessun passaggio. Facendolo non mi sarà possibile indicare tutti i nomi delle persone coinvolte: gli amici che sono stati vicini a me e ai miei genitori si ritengano ringraziati tutti immensamente; gli altri non saranno citati per ragioni che capirete leggendo. Scrivo soprattutto perché, se siamo arrivati alla fine di questa avventura surreale, lo dobbiamo a due persone: il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo, Commissario Straordinario all’Emergenza Covid e una gentilissima dottoressa della Asl2 Liguria che si è presa la briga di leggere tutto l’incartamento di questo caso.

Tutto inizia quando, prima della seconda ondata di contagi, vivendo io in Liguria e in Sicilia i miei genitori ultraottantenni (papà con patologie che dirò più avanti e mamma portatrice di pacemaker), preoccupata per nuove restrizioni agli spostamenti, ho chiesto loro di raggiungermi per poter avere la mia assistenza.

Va tutto bene fino al giorno della prenotazione per il vaccino anticovid.

Mio padre, già dalle prime ore del mattino, si collega al sito del Governo per le prenotazioni e, inserendo i suoi dati, appare la dicitura che recita più o meno: “sebbene sia opportuno vaccinarsi nella regione di residenza, in caso di impossibilità allo spostamento, si può prenotare la vaccinazione nel luogo in cui ci si trova”. Bene, pensa, è proprio il nostro caso. Ma, appena inseriti i dati, il sistema li reindirizza al sito dedicato della Regione Liguria e lì non riescono a provvedere in quanto non residenti. Credendo in una sua incapacità, papà si reca in una delle farmacie deputate alla prenotazione: stesso risultato. Va allora presso gli uffici della Asl2 di Savona dove gli viene detto che, per essere inseriti in lista, avrebbero dovuto cambiare domicilio sanitario.

Facile a dirsi, non a farsi. Perché la Asl2 consegna a mio padre il mod. 1304, secondo il quale dovrebbero produrre anche un certificato di un medico della Asl savonese attestante gravi patologie e le cure da effettuare presso la stessa.

In presenza di tutto questo, la Asl savonese avrebbe prenotato la vaccinazione. Sarebbe però rimasta in sospeso una questione: a carico della Asl siciliana mio padre (88 anni) ha due piani terapeutici per fibrillazione atriale e carcinoma della prostata e dalle due Asl competenti, nel frattempo, aveva ricevuto informazioni contraddittorie riguardo alla possibilità di ottenere in Liguria i medesimi farmaci che, come avviene per i piani terapeutici, vengono distribuiti dagli ospedali. Per non dire che, essendo il loro medico di base anche medico di fiducia, vicino a casa loro e dunque nella possibilità di assisterli anche di notte quando io non sono lì, e avendo questi raggiunto il numero massimo di assistiti, al loro ritorno in Sicilia, non avrebbero più potuto sceglierlo con medico di base.

A questo punto, dato che si trovano in Liguria temporaneamente, al ritorno in Sicilia avrebbero dovuto fare il procedimento inverso: richiesta alla Asl2 di cancellazione del medico curante; recarsi alla Asl di Catania e compilare la domanda di domicilio sanitario allegando tessera sanitaria, documento di identità, attestazione di avvenuta cancellazione da parte dell’Asl2 e certificazione attestante i motivi della richiesta.

Per ulteriore conferma, un amico va alla Asl ponendo la medesima domanda sul cambio di domicilio sanitario ma aggiungendo anche di voler sapere quali fossero i tempi stimati per la pratica e, allo sportello, rispondono che poteva considerare un’attesa dai tre mesi a un anno. Si comprende bene come, a parte l’onere burocratico della cosa, i problemi accessori del piano terapeutico e del medico di base, un’attesa anche solo di tre mesi era eccessiva per un vaccino così importante.

Nel frattempo io comincio a prendere informazioni e scopro che ci sono altri casi, in altre regioni, simili al mio. Contatto così una signora di Viterbo con il padre ultraottantenne ospite presso di lei ma residente a Ravenna, del quale aveva scritto “La Repubblica”. La loro storia era in tutto simile alla mia.

Così, dopo aver chiamato tutti i numeri dedicati regionali e nazionali senza ottenere altro che lunghe musiche d’attesa (per il futuro, dato che dobbiamo ascoltarle per forza, perché non farcele scegliere? Tipo: “Se vuole attendere ascoltando Gigi D’Alessio, prema 1; se preferisce Guccini, prema 2; se desidera la Fuga in sol minore di Bach, prema 3; se preferisce il silenzio, prema il tasto cancelletto”) e informazioni più confuse di quelle in mio possesso, decido di scrivere delle pec e espongo il mio caso al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Ministro della Sanità Speranza, all’allora Primo Ministro Giuseppe Conte e all’allora Commissario Straordinario Arcuri, al direttore generale della Asl2 Liguria e al suo direttore sanitario. Non ricevendo risposta, dopo alcuni giorni, chiamo la segreteria del Presidente della Regione Toti che ha delega alla Sanità. La gentile segretaria mi dice di sottoporre il caso all’indirizzo del Presidente Toti con delega alla Sanità. Provvedo subito con una ulteriore pec, ancora inconsapevole del fatto che ottenere una vaccinazione sarebbe stata un’attività a tempo pieno e senza retribuzione.

Non ricevendo risposta per una settimana (e mi domando se noi cittadini, fedeli contribuenti, non meritiamo nemmeno un “accusiamo ricevuta, Le faremo sapere” scritta in fretta da uno stagista o chi per lui), comincio a contattare i giornali (iniziando da quelli locali) e le televisioni che, nel frattempo, si stavano occupando di storture nei sistemi di prenotazione regionali. Tutti o quasi mi rispondono: “un caso che riguarda soltanto due persone non fa audience”. I giornali mi ignorano o battono altre strade che non portano a nulla.

Inizio a chiamare tutti gli amici variamente impegnati nei media, nella politica, nell’amministrazione, chiedendo un consiglio. Ciascuno cerca a suo modo di aiutarmi facendosi venire idee, cercando di capire come risolvere un problema che a tutti sembra assurdo e che, se non risolto, avrebbe costretto i miei (ripeto, 88 e 84 anni) ad affrontare un lungo viaggio, mentre le varianti del virus impazzano e gli spostamenti tra Regioni sono giustamente proibiti. Per non dire del fatto che, dovendo tornare in Sicilia per vaccinarsi (al di là delle spese non irrisorie da affrontare per il viaggio), non avrebbero potuto avere la mia assistenza, dato che io lavoro qui in Liguria e non sono nelle condizioni di poter lasciare gli impegni. Infatti loro, intanto, perse le speranze, avevano provveduto a prenotarsi in Sicilia e il sistema li aveva destinati al centro vaccinale di Paternò, cioè a circa 35 km. di distanza dalla loro abitazione.

Continuo a chiamare, andare alla Asl, scrivere.

Tramite una conoscente vengo contattata da una dirigente della Asl2 Liguria che mi ribadisce l’obbligo al cambio di domicilio sanitario. Quando chiedo rassicurazioni riguardo ai piani terapeutici di mio padre mi sento rispondere con costernazione che “no, loro non possono garantirmi nulla” (manco avessi chiesto di trovarmi un fidanzato miliardario invece che delle medicine) e che, rispetto al medico di base, sì, è molto probabile che non potranno riavere il loro medico di fiducia, una volta tornati a Catania. Domando allora alla mia interlocutrice se si rende conto che, a una certa età, le persone si sgomentano e si preoccupano per certi cambiamenti e chiedo se lei stessa metterebbe i suoi genitori in questa situazione e senza garanzie riguardo ai piani terapeutici che, sottolineo, non sono relativi alla cura dell’acne (sia detto con il massimo rispetto per gli adolescenti brufolosi) ma a problemi da cui dipende la sopravvivenza. La mia interlocutrice però è una burocrate tutta d’un pezzo bontà sua e, probabilmente, o è dotata dell’empatia del silice o non ha genitori anziani dato che non sa immedesimarsi nel problema.

A un mese dalla mia telefonata alla segreteria del governatore Toti, ricevo dal direttore generale della Asl2 Liguria – a cui nel frattempo avevo chiesto chiarimenti riguardo ai piani terapeutici – una stringata pec, inviata per conoscenza al Presidente Toti, in cui mi si dice che saranno lieti di vaccinare i miei se cambieranno domicilio sanitario. Non una parola riguardo ai piani terapeutici.

Ci troviamo dunque in uno stallo alla messicana come manco in uno dei b-movie tanto amati da Tarantino, che dura almeno fino al cambio di Governo e di Commissario per l’Emergenza.

Decido quindi di scrivere a Draghi e al Generale Figliuolo, esponendo il caso ormai con toni sempre più supplicanti (ammetto di aver letteralmente implorato il Generale, certa che, sotto quella divisa, battesse un cuore non granitico come quello dei dirigenti della Asl2), dato che tutto questo stava producendo lo sconforto dei miei (non auguro a nessuno di sentirsi dire da anziani genitori «ci dispiace per il disturbo che ti stiamo dando, siamo un peso per te…», è una cosa che spezza il cuore; o, almeno lo fa a me, non certo ai burocrati).

Anzi, la domenica successiva, sento il Generale al programma di Fabio Fazio, quando dice che le dosi di vaccino restanti vanno fatte anche ai passanti, ma non devono andare sprecate e, mossa dalla disperazione, mi permetto addirittura di scrivergli di nuovo chiedendo più o meno “da dove devo farli passare i miei per ottenere uno straccio di vaccino?”.

Nella settimana successiva continuo a scrivergli tanto da temere fortemente che il Generale abbia ricevuto da me più lettere di quante non gliene abbia indirizzate la moglie.

Glissando sul fatto che nel frattempo, nei miei molti colloqui con la Asl e dintorni, mi sono sentita dire tutto e il contrario tutto o anche amenità come “intanto cambi il domicilio tanto, alla loro età, chissà se faranno in tempo a tornare in Sicilia”, finalmente e inaspettatamente, ricevo una pec dal Generale Figliuolo che, desidero sottolinearlo, ha preso davvero a cuore la questione (forse nel desiderio che non gli scrivessi più, lo troverei umanamente credibile). Mi ringrazia per aver segnalato il caso e dice che, essendo volontà del Governo vaccinare tutti e soprattutto soggetti fragili come i miei, ha già fatto una nota alla Asl2 Liguria.

Quel giorno con i miei abbiamo brindato felici tipo capodanno, con tanto di trenino e A-E-I-U-Ypsilon-Oh-Meu-Amigo-Charlie-Brown ma con la mascherina e a un metro di distanza. Con la pec del Generale in mano che manco il salvacondotto di Tosca, andiamo tutti e tre alla Asl2 per la prenotazione. Purtroppo, gli addetti agli sportelli e poi tutti quelli con cui ho parlato nelle due ore in cui rimaniamo lì, ci liquidano più o meno così: “il generale può dire ciò che vuole ma tanto noi non li prenotiamo perché il sistema Alisa non lo consente”. Ecco il punto: un software col nome da big del Festival di Sanremo era il mio nemico.

Vado così all’Ufficio di Igiene e chiedo se non sia possibile aggiungere diversamente i miei in lista, se non si possa contattare un webmaster per richiedere l’inserimento dei dati, se si possano destinare loro le famose dosi rimaste per i “panchinari”. Tutti scuotono la testa ma devo dire che mi imbatto nei primi interlocutori in carne e ossa dotati di umanità di tutta la faccenda.

Torno a casa scoraggiata e richiamo la segretaria del Governatore Toti. Le racconto tutto e quella resta sconvolta dal fatto che per un problema informatico non si possa venire a capo della questione. Controlla il protocollo poi e mi comunica che già dopo la prima mia pec avevano mandato una nota alla Asl chiedendo di inserire i miei e mi chiede se io abbia avuto risposta. Sì, rispondo, fornendo il numero di protocollo dell’email inviata dal direttore generale della Asl2 a me e per conoscenza a loro che, però, non l’avevano ricevuta. Mi chiede una nuova nota riassuntiva del caso e promette di fare subito un’ulteriore segnalazione alla Asl2.

Scrivo dunque ancora a quello che ormai era diventato il mio amico di penna, il Commissario Figliuolo. Lo ringrazio dicendogli però che contro un burocrate non può farcela nemmeno un pluridecorato generale di corpo d’armata.

Continuo a telefonare e cercare soluzioni finché, il 30 marzo, il Generale emette un’ordinanza che sembra scritta per me: «[…] in sede di attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione da SARS-CoV-2 richiamato in premessa, ciascuna Regione o Provincia Autonoma proceda alla vaccinazione non solo della popolazione ivi residente ma anche di quella domiciliata nel territorio regionale per motivi di lavoro, di assistenza familiare o per qualunque altro giustificato e comprovato motivo che imponga una presenza continuativa nella Regione o Provincia Autonoma».

Eureka!, ci diciamo a casa. Tutti gli amici ci telefonano felici: “ce l’hai fatta!”, esultano con noi, “l’ordinanza sembra scritta per te”.

Chiamo ripetutamente la Asl2 i più non hanno idea dell’ordinanza n. 3/2021, gli altri mi dicono che va bene l’ordinanza ma Alisa non permette l’inserimento dei dati dei miei genitori. Ancora la maledetta cantante osteggiava persino il mio amico del cuore, il Generale Figliuolo, del quale ormai avevo appeso in camera da letto un poster stile calendario “Max” di Alessandro Gassman.

Così scrivo alla dirigente di teutonica irremovibilità e olimpico distacco che, nel frattempo, era riuscita nell’impresa non da poco di farsi negare al telefono per un mese intero. Rispiego tutto e allego l’ordinanza. Lei mi risponde con un rigo glaciale dicendo di aver inoltrato la mia all’Ufficio di Igiene.

Mi sento presa in giro. Mi sfogo con ogni essere umano presente nel raggio di 400 metri (non oso di più per le limitazioni della mia zona di residenza), qualcuno insiste dicendomi che avrebbe tentato ancora di aiutarmi.

Non sapevo però che, intanto, la manzoniana provvidenza (aiutata dalla somma degli sforzi impiegati in questa battaglia da me e dagli amici coinvolti) si era svegliata e la mia finisce sul desktop di una gentilissima dottoressa che il giorno di Pasqua mi chiama dicendosi costernata per quello che ho affrontato ci dà appuntamento per il Lunedì dell’Angelo per la vaccinazione dei miei.

I miei ricevono la prima dose e l’appuntamento per la seconda. Incontro la gentile dottoressa che mi dice ridendo: “ormai siete diventati famosi alla Asl2”.

Detto ciò, adesso che i miei hanno avuto finalmente anche la seconda dose, mi resta un’osservazione: tutto questo dovrebbe servire per capire che il sistema sanitario deve essere nazionale e non può essere gestito dalle regioni che vanno in ordine sparso, soprattutto in caso di emergenza sanitaria.

E, in ultimo, la situazione mi ha regalato una delle battute più felici del mio arguto papà: 2021 anni fa, quando non c’erano i computer, Maria incinta e Giuseppe, per il censimento, dovettero salire in groppa a un asino e raggiungere Betlemme per farsi registrare. Dopo 2021 anni, ora che abbiamo i mezzi della tecnologia, “canciàu sulu ‘u sceccu”, cioè, è cambiato solo il somaro.

Devotamente

EE.