L’Intermezzo buffo rivive a Savona

Carlo Rosselli, giornalista, filosofo, storico, attivista antifascista, fondatore di “Giustizia e Libertà” che fu processato a Savona per l’emigrazione politica clandestina di Filippo Turati in Francia, organizzata, tra gli altri, anche da Sandro Pertini, era fratello di Nello Rosselli. I due nomi insieme appaiono tra quelli delle vittime del regime fascista: furono uccisi infatti il 9 giugno del 1937 dai cagoulards, assoldati dal SIM.

Nel 1926, Carlo aveva sposato l’attivista inglese Marion Cave e dal matrimonio nacquero due figli: la poetessa Amelia e John.

John Rosselli, scomparso del 2001, è stato un grande musicologo, con un particolare interesse per la storia sociale ed economica dei teatri sette/ottocenteschi e una vera passione per l’Opera italiana. Negli anni in cui scrisse la sua monografia su Vincenzo Bellini (l’edizione italiana uscì da Ricordi nel 1996) fu spesso a Catania, ospite a casa mia e di mio marito e di lui ho un magnifico ricordo.

Mi sono trovata diverse volte a citarlo perché ho amato particolarmente due suoi libri: L’impresario d’opera (EDT, 1985) e Il cantante d’opera (Il Mulino, 1993). Credo che pochi altri saggi, come questi, restituiscano le emozioni e, vorrei dire, gli odori di quei gloriosi templi della musica in cui si esibivano uomini vestiti da donna, castrati e primedonne pronte a tirare fuori dal corsetto cartigli con la loro aria di bravura; luoghi in cui si decretava il trionfo o il tonfo di un compositore così come di un impresario; in cui venivano assoldate claque per sancire il successo di un’opera nuova o schiere di fischiatori per demolirla. Sto parlando di quei teatri in cui la rappresentazione non era necessariamente la cosa più importante della serata perché, mentre un tenore sul palco si esibiva come protagonista di titoli che, nella maggior parte dei casi, sono oggi del tutto dimenticati, nei palchi, protetti dietro tende di velluto, si consumavano amori per lo più illegittimi.

In quei teatri si discuteva di politica, si siglavano accordi, con uno sbadiglio si poteva cambiare lo scacchiere politico e con un ventaglio si poteva rivelare un segreto inconfessabile. Questo è il teatro che dobbiamo immaginare di far rivivere a Savona assistendo a La furba e lo sciocco di Domenico Sarro. O Sarri?

Il nostro musicista, in effetti, nacque in Puglia, a Trani il 24 dicembre del 1679 come Sarro ma fu nel capoluogo partenopeo che il suo cognome venne declinato al plurale. Le notizie sulla sua giovinezza (ma anche sulla maturità) non sono moltissime. Sappiamo che, al contrario di molti suoi colleghi del tempo, non fu un compositore cosmopolita; sappiamo che fu il primo a mettere in musica un libretto di Metastasio (e ben altre fortune avrebbe avuto in seguito il poeta nel mondo dell’opera). E sappiamo anche che, giunto a Napoli, frequentò il Conservatorio di Sant’Onofrio in Capuana.

Per capire un po’ meglio quale fosse l’ambiente musicale di cui stiamo parlando, forse, vale la pena di spendere qualche parola sul sistema di educazione musicale a Napoli, all’epoca e lungo tutto l’Ottocento, soprattutto perché è da quell’ambiente che, per un verso o per l’altro, sarebbero venuti fuori i più grandi talenti musicali d’Italia.

Il Conservatorio di Musica di Napoli oggi si chiama San Pietro a Majella ma questo è soltanto l’ultimo dei conservatori napoletani, in ordine cronologico, che ha riunito le gloriose scuole musicali cittadine. Queste erano nate nel periodo della dominazione spagnola e si trovavano a Napoli perché Napoli era sede di vicereame già dall’inizio del XVI secolo. Erano: Santa Maria di Loreto (il più antico, uno dei suoi allievi più celebri fu Domenico Cimarosa), la Pietà dei Turchini (tra i suoi allievi ci furono Tritto, Leonardo Leo, Gaspare Spontini), I Poveri di Gesù Cristo (che ebbe come allievi Porpora, Leonardo Vinci e Pergolesi) e, appunto, Sant’Onofrio in Capuana dal quale, oltre al Nostro, uscì per esempio Giovanni Paisiello. Erano scuole musicali di grande prestigio, nate inizialmente come orfanotrofi, in realtà pochi dei ragazzi che vi si trovavano erano senza genitori; ne venivano fuori compositori ed esecutori per il repertorio sacro ma alimentavano anche il campo del genere profano.

Ultimo in ordine cronologico perché nato nel 1806 fu il San Sebastiano in cui, grazie a una borsa di studio di 36 onze annue concessa dal Decurionato catanese, studiò Vincenzo Bellini.

E dato che stiamo parlando di edifici, di luoghi in cui si faceva musica, direi subito qualcosa sul Teatro di San Bartolomeo in cui, il 7 gennaio del 1731 andò in scena per la prima volta La furba e lo sciocco di Sarro su libretto di Tommaso Mariani.

Il San Bartolomeo fu il principale teatro d’opera napoletano fino alla costruzione del San Carlo che avvenne nel 1737. Era stato costruito nel 1620 accanto alla chiesa omonima, dall’Ospedale degli Incurabili in modo che i proventi degli spettacoli ospitati avrebbero potuto accrescere le entrate per il nosocomio. Nel corso della sua storia ha ospitato le prime rappresentazioni delle opere più importanti del tempo. Nel 1681 fu distrutto da un incendio; in due anni venne ricostruito e, il 5 settembre del 1733, ospitò l’opera di Pergolesi Il prigioniero superbo che, come Intermezzo buffo, aveva la celeberrima Serva padrona, destinata a sopravanzare del tutto, in fama, l’opera seria alla quale era legata e a diventare, nel tempo, il prototipo stesso dell’Intermezzo.

Dunque, torniamo per un attimo a quegli ambienti ovattati, a volte caciaroni, pubblici e intimi allo stesso tempo che ci ha descritto così bene John Rosselli nei suoi libri. Ambienti in cui, senza parere, a metà tra boudoir e sala del Consiglio, si scriveva la piccola e la grande storia. Il pubblico dell’epoca era ancora composto per la maggior parte di nobili e ricchi e i temi delle opere erano infatti di giusta misura per quei frequentatori. Ecco qualche titolo andato in scena al San Bartolomeo: Il Teseo, o vero L’incostanza trionfante di Francesco Provenzale, L’Edmiro creduto Uranio di Giuseppe Tricarico, Caligula delirante di Filippo Acciaiuoli, Il Pirro e il Demetrio di Alessandro Scarlatti, Aiace di Francesco Gasparini, Tito Manlio di Luigi Mancia, Silla di Francesco Mancini, Flavio Anicio Olibrio di Nicolò Porpora, Armida al campo di Domenico Sarro, Publio Cornelio Scipione di Leonardo Leo, Gerone tiranno di Siracusa di Johann Adolf Hasse, La Salustia di Giovanni Battista Pergolesi, L’umiltà esaltata di Albinoni, ecc. Per la maggior parte opere serie, per la gran parte opere dimenticate o quasi, a meno di moderni repêchages, e comunque opere di una certa lunghezza in termini di tempo.

Ebbene, per spezzare la tensione delle rappresentazioni serie, all’incirca negli anni Trenta del Settecento, venne in uso l’introduzione di uno o due Intermezzi buffi tra gli atti di queste opere. Momenti divertenti rappresentati da operine di breve durata con due protagonisti (a volte tre o due con un figurante muto). Spesso lo stesso Intermezzo poteva essere usato per opere diverse e i temi, in linea di massima, erano mutuati dalle situazioni sceniche della commedia dell’arte. Per queste caratteristiche, negli anni, gli Intermezzi finirono con l’avere molta più fortuna delle opere serie a cui erano associati.

E arriviamo così a La furba e lo sciocco che era appunto l’Intermezzo nell’opera Artemisia.

All’atto di mettere in scena oggi un Intermezzo, si pongono soprattutto de problemi: la debolezza drammaturgica del libretto e la scarsa durata. Ma, al di là del fatto che si tratta di testi molto divertenti, la necessità di riproporli sta negli elementi di interesse storico che racchiudono.

Nel caso de La furba e lo sciocco, per esempio, è interessante il contesto partenopeo nel quale nacque. Nel lasso di tempo in cui Sarro operò, a Napoli stavano succedendo molte cose: dalla presenza degli austriaci al passaggio a Carlo III Borbone che nel 1734, durante la guerra di successione polacca, al comando dell’armata spagnola, aveva conquistato il Regno di Napoli sottraendolo alla dominazione austriaca. Carlo III inaugurò a Napoli un periodo di rinascita politica, di ripresa economica e di grande floridezza culturale. Sul piano economico, per esempio, forte di quanto era avvenuto a Livorno per arricchire il porto toscano, invitò gli ebrei a stabilirsi nel Regno per accrescere il flusso di investimenti sul porto; firmò patti di commercio con Svezia, Danimarca e Olanda; fondò scuole per la produzione di manufatti artistici coma la Real Fabbrica degli Arazzi, il Real Laboratorio delle Pietre Dure e la Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. Volendo rivaleggiare in magnificenza con Versailles, nel 1751 decise l’edificazione di una residenza reale a Caserta dove già esisteva un padiglione della caccia. Sotto Carlo iniziò la stagione degli scavi a Ercolano e Pompei per riportare in luce le antichità romane e, naturalmente, anche sulla musica la sua presenza ebbe degli effetti. Fu lui ad affidare a Giovanni Antonio Medrano e Angelo Carasale il compito di costruire un grande teatro d’opera per sostituire il piccolo San Bartolomeo, ormai inadeguato per una capitale europea. Così nacque il Real Teatro di San Carlo che fu inaugurato proprio il 4 novembre, giorno onomastico del re.

Quindi, per rendere questa temperie culturale e, soprattutto, il passaggio cruciale tra un’epoca e l’altra, Matteo Peirone che è regista di questa rappresentazione e ha curato la drammaturgia del testo, oltre all’inserimento nell’intermezzo di personaggi come lo stesso autore, Sarro, e come Carlo Cerere, compositore e acclamato mandolinista (per noi interpretato da Carlo Aonzo), ha utilizzato il noto sistema dell’Aria da baule, pratica abituale all’epoca di Sarro. Per esempio, il duetto finale che sentirete, è “rubato” proprio a La serva padrona.

L’idea della rappresentazione è quella di trasportare il pubblico dall’interno del Teatro Chiabrera di Savona, all’interno del Teatro San Bartolomeo di Napoli, nel 1731. Accompagnatori per questo viaggio nel tempo saranno proprio Sarro e Cecere.

La trama, come avrete capito, diviene, a questo punto, meno importante. Si tratta della solita storia della donna scaltra – la Furba, appunto – Madama Sofia, che, costretta dalla povertà, cerca un marito nobile e ricco – in questo caso lo Sciocco, il Conte Barlacco.

Come spesso avveniva all’epoca, i nomi mettono sull’avviso il pubblico rispetto ai caratteri dei personaggi (ricordate il nome della serva padrona? Era Serpina). Qui la protagonista è Sofia e sophia in greco significa sapienza.

All’epoca in cui andò in scena, il successo dell’Intermezzo fu legato soprattutto alla musica, in grado di rendere particolari effetti comici.

Qui a Savona troveremo anche altri motivi di interesse, nella possibilità di far rivivere la sensibilità e le atmosfere di un tempo ormai perduto.

(Emanuela E. Abbadessa)