
Cara amica,
ho ritrovato tra vecchi file un elenco di cose belle. Non ricordavo di averlo mai scritto. Ma appena l’ho letto mi è sovvenuta l’occasione. Erano i primi anni Novanta, ero sposata, felice e infelice nello stesso tempo perché la vita stava già cominciando a portarmi via le certezze che a mala pena ero riuscita a mettere insieme. Alcune delle cose scritte allora continuano a piacermi altre non più, come bere il caffè al mattino dato che adesso non lo prendo. Quella riga in lista, però, l’avevo messa solo perché era mio marito a portarmi la tazzina a letto al mattino e non saprei dire se amassi più la bevanda o quel gesto così tenero fatto per me.
Rileggere il file ieri, è stato come aprire uno scrigno perché per ciascuna delle cose scritte alla rinfusa ho un ricordo.
Per dire ciò che mi piace, potrei mettere una dopo l’altra tutte le cose che mi vengono in mente adesso e in ordine sparso. Allora scriverei: i gatti, il sale sulla pelle che si asciuga al sole, i cornetti alla crema, la salsa come la faceva la nonna Ersilia, il dolore di Tosca, le patatine davanti a un brutto film, un paio di orecchini nuovi, ricevere posta, trovare la frase giusta nascosta in una poesia, comprare un regalo a chi si vuol bene, addormentarsi sereni, voler bene, piangere di gioia, la pizza, un albero troppo alto, il mare troppo agitato, la nebbia fuori e dentro il Duomo di Milano, Roma vista dall’Altare della Patria, una passeggiata la mattina presto in una città sconosciuta, il sorriso di un passante, comprare biancheria nuova, l’Etna in eruzione, il Caravaggio di Malta, il volo di un pipistrello d’estate, avere qualcuno che conti su di te, guidare in una strada vuota, dire la cosa giusta al momento giusto, il primo caffè della giornata, lo squillo di una telefonata attesa, la granita di cioccolato della nonna, un paio di polacchine rosse, una donna bella, ridere di una barzelletta, un bicchiere di vino, il giorno del matrimonio, Shakespeare che ha detto la cosa che vorresti dire in quel preciso momento in cui ti mancano le parole, raccontarsi a qualcuno, rigirarsi la fede intorno al dito, le mie Barbie, visitare un museo, i biscotti, cambiare il vestito alla mia bambola quando cambia il mio umore, Mozart, i complimenti esagerati, navigare in Rete in silenzio, cantare una romanza, ordinare una stanza, il bagno caldo, ballare fino a farsi girare la testa, fare il bucato, l’olio sulla pelle, un Trio di Schubert, farsi stupire da un’architettura esotica, i figli della mia amica che mi danno un bacetto appiccicoso di caramelle e biscotti, impacchettare regali, fare sorprese, trovare qualcosa che credevi perduto, fare fotografie e guardare quelle vecchie, uscire di casa e salutare tutti i negozianti del quartiere, preparare una grande cena.
Scriverei tutte le cose che stanno tentando di venirmi sulle dita ma che restano intasate perché non sanno mettersi in fila.
Ricordo la nebbia dentro e fuori il Duomo di Milano in una mattina gelida, uscita da un albergo in centro. Camminavo sola per strada in attesa dell’ora di un appuntamento e di colpo mi apparve la facciata della chiesa. Le guglie appena visibili nel biancore. Rivedo me che accelero il passo per entrare e dentro un prete dice messa e tutta la nebbia di fuori, lì dentro, era diventata odorosa e sapeva di incenso. Era concentrata in una nuvola nella navata centrale che si spandeva lentamente verso l’alto.
Ricordo Roma vista dall’Altare della Patria in un pomeriggio di primavera col sorriso del mio migliore amico accanto che voleva regalarmi un momento di dolcezza tra le pene che allora avevo. Lasciava che la città parlasse al posto suo come se fossi finita dentro Vacanze romane.
Ricordo la Decollazione del Battista a Malta, rivedo me che crollo annientata dalla bellezza su una panca, pallida. Mio marito mi fotografa, incredulo del fatto che la sindrome di Stendhal esista davvero.
Ricordo le polacchine rosse, regalo inatteso di un amico che c’era quando doveva esserci e c’è ancora: entrambi con addosso il carico di anni e di vita che pure ridiamo come allora non sapevamo fare.
Ricordo la frase giusta scritta da Shakespeare dentro un sonetto e diretta a me, pensai leggendola. “Ah, come simile a inverno fu l’assenza mia da te, piacer dell’anno fuggitivo”.
Ricordo i bacetti appiccicosi di caramelle dei figli di una donna che amica non credo lo sarà mai più e non ne so il perché.
Potrei dire che quasi tutto m’incuriosisce ma non resisto al fascino delle parole scritte, alla malìa che si sprigiona solo quando si aprono le pagine di un libro. Leggo e scrivo perché, a volte, credo che sia l’unica cosa che mi piaccia fare davvero. Però qualcosa continua a ripetermi che il codice delle parole è un filtro micidiale e che troppe volte passa per i troppi stadi che ci sono tra la nostra testa e le nostre labbra o le nostre dita e poi finisce dove non si sa, fino alle orecchie o agli occhi di altri per risalire alla testa.
Mi piace cominciare e finire le mie giornate leggendo.
La mattina, col mio caffè e i miei giornali; la sera, coi margini del mio libro di turno che si piegano contro il cuscino.
Rileggo e penso e mi scopro uguale e diversa. Risento addosso le gioie di quegli anni ma anche i dolori laceranti.
Chiudo il file e penso di spostarlo nel cestino. Basterà un movimento del mouse per cancellare le lacrime di allora? E quando lo avrò fatto, perderò anche le gioie? Sulla lingua sento il sapore della pizza, nelle orecchie la preghiera disperata di Tosca, sotto i polpastrelli il corpicino del mio micetto e addosso il mare che si asciuga sulla pelle. Così sollevo il dito dal tasto del mouse e tengo lì il mio elenco venuto dal passato a ricordarmi il brutto e il bello.
Devotamente
EE.
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