Menotti e la modernità

Emanuele Arciuli, nel suo La bellezza della Nuova Musica, ha scritto una frase che mi ha divertita e mi è piaciuta al punto che ho finito per citarla varie volte, in diverse occasioni in cui mi sono trovata a parlare di musica. Ecco quanto: «Molte persone sono ancora convinte che la musica classica sia eseguita da musicisti – auspicabilmente vivi – che evocano compositori defunti, ignorando che esiste qualche decina di migliaia di compositori viventi, e anche in ottima salute.»

Se la cosa è vera per la musica strumentale, lo è a fortiori per l’opera. I più, per ragioni che non vorrei indagare in questa sede, considerano l’opera lirica, nel migliore dei casi, un patrimonio del passato. Di un passato da rievocare attraverso l’estenuante ripresa di una decina o poco più di titoli (sempre quelli, il cosiddetto “repertorio”) nei quali a cambiare sono soltanto gli interpreti e le più o meno fantasiose regie. Nulla di male (o di troppo male) in tutto questo, intendiamoci, ma sarebbe carino se, ogni tanto, queste stesse persone considerassero che l’Ottocento è stato il secolo di maggior splendore per l’opera lirica e non il solo ad averne prodotta.

Certo, le ragioni socio-culturali e politiche che resero così importante il melodramma nell’Ottocento sono venute a mancare ma ciò non significa che l’opera, come molte altre forme musicali, non sia sopravvissuta e che, anzi, non abbia ancora qualcosa da dire. Solo restando in ambito italiano sono centinaia i nomi di musicisti a noi contemporanei che scrivono opere e che potremmo citare. La qual cosa dovrebbe quanto meno far nascere il sospetto che se anche questi compositori fossero folli nel pervicace intento di dedicarsi al melodramma, nella loro follia dovrebbe pur esserci un metodo, per dirla con Shakespeare.

Tutto è quasi risibile dato che l’opera della quale sto per parlare non è nemmeno così moderna come la premessa giustificherebbe, anzi. Fu scritta infatti nel 1946 e per me, francamente, settantacinque anni sono un’età di tutto rispetto.

A scriverla fu Gian Carlo Menotti, persona che al teatro ha dato molto e sul quale val la pena di spendere qualche parola. Era nato a Cadegliano Viconago nel 1911 e morì a Montecarlo nel 2007. Fu autore televisivo, regista, musicista, librettista e fondatore nel 1958 del celeberrimo Festival dei Due Mondi di Spoleto, del quale inventò anche una versione americana, in Carolina del Sud, che si chiamava Spoleto Festival USA, e una australiana a Melbourne. Dal 1993 diresse l’Opera di Roma e, tra le varie onorificenze, nel 1981 fu nominato Cavaliere di Gran Croce.

In musica fu un talento precoce, a 7 anni componeva canzoni e a 11 scrisse libretto e musica della sua prima opera, La morte di Pierrot. Nel ’23 entrò al Conservatorio di Milano. Su consiglio di Toscanini si trasferì negli Stati Uniti e si iscrisse al Curtis Institute of Music di Philadelphia. Fu allievo di Rosario Scalero insieme a Bernstein e Samuel Barber con il quale lavorò in seguito a diverse opere e per il quale scrisse il libretto di Vanessa che ottenne il Premio Pulitzer (ne avrebbe vinto uno tutto suo con The Consul, del 1950, e con l’escamotage di avere la cittadinanza americana per un giorno – quello per consegna del premio – dato che il riconoscimento può essere attribuito soltanto a cittadini americani e lui non voleva rinunciare allo status di cittadino italiano).

Proprio al Curtis si dedicò a una delle sue opere più famose, Amelia al ballo (1937). Tra questa e le successive, c’è un lungo periodo di lavoro matto e disperatissimo su libretti, balletti, testi, opere radiofoniche e concerti (il Concerto per pianoforte e orchestra è del 1945).

Così arriviamo finalmente a La medium. Titolo quanto mai opportuno in un momento in cui nel nostro Paese si dibatte tanto di scienza e, soprattutto, in cui i social hanno dato un megafono alle chiacchiere da bar alla quali qualcuno ha finito per fare lo stesso credito che si dà alla medicina ufficiale. Parla da solo l’ultimo rapporto del Censis che fotografa un’Italia sempre più credulona (o ignorante, fate voi): il 12,7% degli Italiani considera la scienza dannosa, il 19,9% pensa che il 5G sia un sistema di controllo delle menti; per il 56,5% esiste una casta mondiale (una specie di Spectre, immagino) che controlla ogni cosa nel mondo; il 10% non crede che l’uomo sia mai andato sulla Luna e il 5,8% che la Terra sia piatta.

Dunque, giunge al momento giusto un titolo come La medium. Perché, in effetti, quest’opera, parla del mondo dell’occulto, dell’immateriale, del non scientificamente provabile e lo fa con una cifra a tratti grottesca tutta sua che trova rispondenza in un’esperienza dello stesso Menotti.

Nel 1936, infatti, Menotti e Barber erano stati invitati a cena da una nobildonna inglese che, nel corso della serata, aveva organizzato una seduta spiritica per evocare l’anima della figlia morta adolescente. Nel tempo, era rimasto A Menotti il desiderio di riproporre le atmosfere di quella sera attraverso la musica. L’occasione gli venne dieci anni dopo quando l’Alice M. Ditson Fund della Columbia University di New York gli commissionò il progetto. La prima rappresentazione del titolo, per il quale Menotti, come d’uso, aveva realizzato sia il libretto che la musica, avvenne dunque in ambito non professionale (era l’8 maggio 1946). Per una rappresentazione con professionisti occorse un altro anno quando The Medium andò in scena insieme a un altro suo titolo, The Telephone, all’Heckscher Theater di New York il 18 febbraio del ’47. Il successo ottenuto spinse l’autore a prepararne una seconda versione leggermente ampliata, presentata all’Ethel Barrymore Theater di Brodway il 1° maggio del ‘47.

L’eco del successo giunse anche da questa parte dell’oceano e la prima italiana si tenne a Genova, con la regia dello stesso Menotti, nel 1949.

Del 1951 è la sua versione cinematografica (che fu anche presentata al Festival di Venezia) realizzata con l’aiuto di Alexander Hammid e l’interpretazione di Anna Maria Alberghetti. Da allora, l’opera ha avuto centinaia di riprese.

La versione italiana del libretto fu realizzata da uno dei massimi sostenitori di questo titolo, Fedele D’Amico.

Il testo si muove sul doppio binario verità-finzione o, come avrebbe detto Pirandello, “così è, se vi pare” e, attraverso il personaggio della protagonista, mostra in tutta la sua attualità quanto certe convinzioni possano renderci vittime di noi stessi, dei nostri stessi comportamenti.

I due atti dell’opera, sul piano drammaturgico, funzionano benissimo, hanno un ritmo rapido e una durata ridotta (circa un’ora).

Sarebbe un errore cercare ne La medium qualche traccia musicale della produzione lirica italiana di poco precedente; per trovare qualche “risonanza” bisogna piuttosto pensare all’espressionismo, all’immediatezza nella rappresentazione delle situazioni e alla capacità di accostare momenti in cui le dissonanze tendono spiazzare l’ascoltatore immettendolo nel mondo dell’occulto e altri in cui le melodie si fanno godibili come valzerini (è il caso appunto del valzer di Monica nell’atto secondo).

E veniamo alla trama.

Siamo nel salotto della medium: lì stanno giocando Monica, figlia di Madame Flora, e Toby, un giovane servitore muto salvato “dalle strade di Budapest”. Giunge ubriaca Flora, detta Baba, e rimprovera aspramente i due per non aver preparato la seduta spiritica che si sarebbe tenuta quella notte.

Arrivano quindi gli ospiti della serata; i coniugi Gobineau e la signora Nolan, una vedova, che partecipa per la prima volta a una riunione del genere. Flora entra in trance (o così fa credere) e la signora Nolan parla con quella che pensa essere l’anima della figlia morta a sedici anni. In realtà si tratta di Monica che, nascosta dietro un paravento, si finge lo spettro. Uscita di scena Monica, la signora Nolan si precipita verso la figura ma viene trattenuta dai Gobineau. La situazione si calma e Mr. e Mrs. Gobineau entrano in comunicazione con il defunto figlio Mickey, morto a due anni, che non riesce a smettere di ridere. Salutato anche Mickey, la signora Flora si porta le mani alla gola sentendo la presenza di un fantasma che la stringe. Terrorizzata invita gli ospiti ad andarsene. Richiama quindi Monica chiedendole cosa abbia sentito e incolpa Toby di essere rimasto nell’altra stanza e non averla aiutata.

Tentando di calmare una furia acuita dall’alcol, Monica intona una ninna-nanna presto interrotta da una voce udita da Baba. La donna va su tutte le furie e se la prende ancora con Toby che non sa dirle da dove provenga la voce.

Il primo atto si chiude sulla voce di Monica che riprende la ninna-nanna mentre la madre recita l’Ave Maria.

Quando si apre il sipario sul secondo atto, è passato qualche giorno e Toby sta realizzando uno spettacolo di marionette per Monica: i due ragazzi si sono innamorati. Rincasa Baba che ricomincia ad accusare il giovane di non saperle dire cosa sia successo la notte della seduta spiritica.

Giungono ancora gli ospiti per un’altra sessione a colloquio con le anime dei defunti ma Flora cerca di allontanarli dicendo loro di essere un’imbrogliona, che tutto è una farsa montata grazie ai trucchi che lei elabora con Monica. Gli ospiti non ne sono convinti, pensano piuttosto che potrebbe essere soltanto una sensazione della medium e che questa, in realtà, non inganna nessuno.

Usciti di scena gli ospiti. Baba caccia via Toby malgrado Monica la supplichi di lasciarlo restare. Madre e figlia restano sole, Baba si versa da bere e si domanda se non stia impazzendo. Si addormenta e Toby, approfittando del suo sonno, torna per cercare di entrare in camera di Monica. La trova chiusa a chiave e decide di cercare il suo tamburo ma, muovendosi di soppiatto nella stanza, sveglia Baba. Per non farsi scoprire, il giovane si nasconde nel teatrino delle marionette ma i rumori insospettiscono la medium che vuole capire di cosa si tratti. Impaurita e fuori controllo prende la sua pistola e: “Chi è? Parla o sparo!”. Toby fa muovere il sipario del teatrino e Baba spara alcuni colpi.

Il corpo di Toby cade afferrando la tenda e Baba esulta per aver ucciso il fantasma. La figlia, uditi i colpi di pistola, accorre e vedendo il cadavere del ragazzo gli si getta addosso mentre il sipario cala e la medium sussurra: “Sei stato tu?”

Probabilmente Menotti non fu un compositore geniale ma era un abilissimo uomo di teatro e un valido musicista, capace di mettere insieme momenti musicali di grande presa e situazioni dal ritmo “cinematografico”. Su di lui la critica si è spesso divisa: Paolo Isotta lo ritenne un mediocre e certi ambienti, come quello scaligero, lo hanno sempre snobbato. Fatto sta che il tempo e il numero di allestimenti delle opere di Menotti parlano da soli: il pubblico continua ad amarlo perché parlava una “lingua comune” e molto personale; trattava i temi della modernità, dall’incomunicabilità alle tecnologie, dalle dittature all’ignoranza dei creduloni; perché ebbe il coraggio di essere controcorrente in un periodo in cui le avanguardie spingevano sempre più avanti i limiti; perché intuì le potenzialità dei nuovi media e perché aveva una grande capacità di elaborazione melodica e probabilmente, figlio del suo tempo, trovò nella misura dell’opera breve il suo campo di battaglia preferito.

(Emanuela E. Abbadessa)