Il lavoro della musica

Questa mattina mi trovavo con il mio amico Damiano Meraviglia per preparare il prossimo appuntamento dalla Royal Opera House al Nuovofilmstudio di Savona.

Gli raccontavo che la scorsa volta, dopo aver presentato Il barbiere di Siviglia di Rossini, un distinto signore del pubblico mi ha chiesto come faccia a ricordare tante date e, in generale tante cose. La domanda sembra apparentemente innocua ma oggi riflettevamo con Damiano sul fatto che esiste un retropensiero.

Mi spiego: io lavoro nel mondo della musica e del teatro, è ciò che ho studiato; ho insegnato Storia della musica e dunque direi che presentare opere è il mio lavoro. Immagino che il distinto signore di cui sopra, andando dal medico, non si senta portato a chiedergli stupito come faccia ricordare tutti i nomi delle malattie o delle ossa o degli organi, così come, rivolgendosi a un ingegnere, non penserà di chiedergli come fa a ricordarsi come si fanno i calcoli o roba del genere. Se la domanda viene posta a chi si occupa di musica è perché, in fondo, si pensa che il mio sia un hobby, che io sia un’appassionata, una che si diletta di ascoltare musica, ogni tanto apre wikipedia per leggere la data di qualche prima rappresentazione e poi ha tanta buona memoria.

La cosa, temo, riguarda in generale tutti quelli che si occupano di arti, quelli cioè a cui viene sempre chiesto: “sì, ma di lavoro vero cosa fai?”.

A tutti i curiosi, dunque, mi sento di rispondere – provocatoriamente – come rispondevo ai miei studenti quando mi domandavano che musica ascoltassi per “divertirmi”: io non ascolto la musica per “divertirmi” perché sono come i ginecologi, lavoro dove gli altri si divertono.

EEA

Chiedi chi erano i Doors

Sono una boomer. Sono cioè cresciuta in anni in cui noi ragazzini eravamo davvero tanti (56 in classe al mio primo giorno della prima elementare) e il mercato proponeva formaggini dal gusto giovane. Nondimeno, in quegli anni, essere anziani era un valore. Un valore contro il quale avremmo fatto anche noi le nostre battaglie, avremmo “ucciso i nostri padri” per dimostrare che non eravamo buoni soltanto a ciucciare formaggini.

Sono una boomer che frequenta i social e legge anche i post delle nuove generazioni, millennial o z che siano, e che per semplicità d’ora in poi chiamerò genericamente “giovani”. Una manciata di giovani, oserei dire, rispetto ai debordanti dati demografici degli anni dal Dopoguerra ai Sessanta. Eppure una manciata di giovani che, a volte, sanno prendere posizioni nette (l’attenzione al mutamento climatico è merito loro, per esempio) e sono capaci di focalizzare l’interesse di intere nazioni.

Anche loro, come tutti quelli che li hanno preceduti, devono “uccidere i padri” per ritagliarsi il loro spazio e andare oltre la semplice certificazione di esistenza in vita. E fanno bene a farlo.

Forse, però, a volte, rischiano di buttare via anche il bambino con l’acqua del bagnetto (probabilmente lo abbiamo fatto anche noi boomer, non voglio certo ergermi a laudator temporis acti – per carità! – perché a farmi sentire vecchia basta da solo lo specchio).

Ci pensavo questa mattina facendo le pulizie. Io sono una boomer che, a volte, pulendo casa, ascolta la radio.

In radio, questa mattina, passavano la canzone che La Rappresentante di lista ha portato a Sanremo, Ciao ciao. Ero lì a spolverare quando mi accorgo che anche l’emittente su cui ero sintonizzata stava mandando in onda la versione censurata del brano (come fanno in tv, in programmi come L’Eredità o Uomini e donne, roba da boomer che seguo io), quella cioè in cui la cantante dice due volte “con le gambe” invece che “con le gambe, con il culo”. Culo. Parola che, sia detto, ha cantato a squarciagola in tutte le serate sanremesi, dunque sulla stessa Rai Uno che oggi manda la versione purgata.

Così ho ripensato anche alla partecipazione degli apparentemente trasgressivi Måneskin all’Eurovision Song Contest. Per partecipare fu chiesto loro di cambiare il testo della hit vincitrice del Festival di Sanremo (e che si sarebbe aggiudicata anche la palma europea), Zitti e buoni, in cui compariva la parola “coglioni”, che pure anche loro avevano urlato in prima serata dal palcoscenico ligure.

Nulla di male, ovviamente, nel desiderare un pubblico più ampio e, dunque, ripulire i testi dai culi e dai coglioni, perché, si sa, pecunia non olet.

Qualcosa non di male, invece, ma di lievemente disturbante, c’è nei post dei suddetti giovani a proposito di questi interpreti. I tweet prodotti dai giovani durante l’esibizione dei Måneskin all’Eurovision Song Contest erano per la maggior parte molto violenti contro noi boomer che, a loro dire, saremmo dovuti restare sconvolti dal trucco di Damiano, dal look del gruppo, dallo smalto su unghie maschili. Noi. Sconvolti. Da un ragazzo in reggicalze. Da quello stesso ragazzo che per dimostrare di non essersi chinato su un tavolo per farsi una pista di coca si è reso disponibile a un test antidroga? Intendiamoci, non c’è niente di “figo” nel drogarsi – tutt’altro! – ma noi boomer siamo costretti a ricordare ai giovani “le porte della percezione” di Jim Morrison e che lo stesso Jim Morrison non censurò Light my fire all’Ed Sullivan Show e, pur avendo pattuito l’“ammorbidimento” del testo (“girl, we couldn’t get much better” invece di “girl, we couldn’t get much higher” per eliminare ogni possibile riferimento alle droghe), in diretta sconvolse i telespettatori statunitensi interpretando la versione originale, al punto che Ed Sullivan non gli strinse la mano dopo la performance e che i Doors furono banditi dagli studi televisivi.

Il reggicalze di Damiano o il “battesimo” a torso nudo di Achille Lauro ci fanno al massimo sorridere dopo aver visto le calze a rete sulle cosce di Tim Curry nei panni di Frank-N-Furter o il pene di Jim Morrison (sì, ancora lui) sul palcoscenico.

Sono una boomer cresciuta guardando un chitarrista fare cunnilingus alla sua Stratocaster; mi sono scoperta donna sognando la pelvi di Mick Jagger che manco un’ora su YouPorn ha per me lo stesso effetto. Per noi boomer Ozzy Osbourne ha staccato a morsi la testa a un pipistrello (gesto condannabile senza dubbio, ovviamente) e nei musical che vedevamo c’erano uomini integralmente nudi e cantavano canzoni in cui si diceva che la sodomia e la fellatio non sono parole così “cattive”. E se non è una cattiva la parola pompino, figuratevi culo.

Ed è facile andare oggi sul palco di Sanremo in tutina di lamé e occhi bistrati, difficile era farlo nella periferia di Roma negli anni Settanta, quando il più gentile si limitava a gridarti “frocio”.

Quindi, forse, prima di immaginare un boomer scandalizzato, sarebbe il caso di chiedergli di quando Marina e Ulay, nel ’77, costringevano il pubblico della Settimana Internazionale della Performance a passare per una porta così stretta da doversi strofinare contro i loro corpi integralmente nudi e immobili ai lati dei battenti o di quando, a Darmstadt, si rimetteva in discussione tutto ciò che si era creduto indiscutibile in musica. Proprio tutto e, in qualche caso, anche quello che non doveva essere discusso.

(Emanuela E. Abbadessa)

Lettera sulle “vite storte”

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Caro amico,

ripensavo alla violenza di genere leggendo un bel libro uscito di recente per A&B. Ti propongo le mie riflessioni sul femminicidio a partire da una serie di casi dell’inizio del Novecento, raccolti con grande bravura da Nunzia Scalzo. (Il testo che leggi è stato pubblicato parzialmente sulle pagine palermitane del quotidiano “La Repubblica” il 31 marzo scorso)

Devotamente

EE

 

Vittime o carnefici, le femmine sono tutte buttane. Questo è il triste mantra di Vite storte (A&B Editrice), il prezioso libro in cui Nunzia Scalzo ha raccolto le storie di Antonietta, Emma, Filomena, Sofia, Aurelia, Assunta, Concetta, Giulia, Maria Catena e Rosa. Ad accomunarle c’è proprio quell’osceno appellativo che riempie la bocca di chi lo pronuncia, bollando la donna con un giudizio morale senza appello.

La Scalzo, tedesca di nascita ma siciliana d’adozione, laureata in filosofia ed esperta di psicologia e filosofia del diritto, da anni è grafologo forense nei tribunali italiani. Con la perizia del ricercatore attento della materia giuridica, ha messo insieme una serie agghiacciante di casi di omicidio che hanno al centro le donne vittime di violenza: donne violate nel corpo dalla follia degli uomini o annientate nell’animo, abbrutendosi al punto da divenire esse stesse assassine. Il secondo filo rosso che le lega è l’ambiente siciliano, nel quale vivono o dal quale provengono.

I fatti, tutti veri e suffragati dalle carte processuali che l’autrice cita ampiamente pur manipolando la lingua legale per convertirla a un italiano narrativo e molto scorrevole, lasciano nel lettore il rimbombo cupo dell’offesa: quel buttana, urlato nei tribunali all’indirizzo delle vittime, è la seconda condanna dopo quella che, in nome di un malinteso e perverso senso dell’onore, un uomo ha già pronunciato per loro.

Come in una sorta di Spoon River siciliana, con una tecnica già cara a Tea Ranno (scrittrice di Melilli che più volte ha rievocato la sopraffazione dell’uomo lasciando parlare direttamente le donne uccise), le voci femminili riemergono dall’oblio: tornano così in vita Ninetta Longo, la decapitata di Castelgandolfo, una giovane come tante a cui Mascalucia, il paese alle pendici dell’Etna, andava stretto mentre sognava la Capitale e il grande amore; la burrosa palermitana Emma Pinto che consegnava al diario tutta l’infelicità di un matrimonio con un uomo inadeguato; Filomena Salzillo, suora napoletana spogliatasi per amore del medico palermitano Girolamo, e la moglie stessa di quest’ultimo, uccisa con un figlio in grembo da un marito capace soltanto di giocare con le vite altrui.

Spaventoso è il duplice omicidio di Caltagirone dove, la mattina del 18 luglio 1960, un lattaio, che citofonando a casa Leone non aveva avuto risposta, allertò una delle residenti della palazzina di via Amore. Con lei scoprì un rivolo di sangue uscire da sotto la porta dell’appartamento. Lì i carabinieri intervenuti trovarono il cadavere di Rosa, uccisa dal marito Antonino insieme al figlioccio Francesco Razza che Antonino, folle di gelosia, si era convinto fosse l’amante di sua moglie.

Fedeli come Rosa Leone o adultere come Concetta Mortellaro, freddata da una serie di colpi di pistola, queste donne sono state tutte giudicate da un uomo e condannate a morte, spesso insieme ai loro amanti veri o presunti.

Ma siccome la violenza sulle donne non conosce geografie e, imperversando in ogni luogo, colpisce in ogni strato sociale, emblematica è la vicenda della contessa Giulia Trigona di Sant’Elia. La bella nobildonna condivide con Anna Karenina una triste storia, differente solo nell’epilogo: moglie del conte Romualdo ed esponente dell’alta società palermitana, era dama di corte e intima della regina Elena. La sua vita sarebbe andata aventi senza scossoni tra un ricevimento e l’altro se non avesse incontrato il barone Vincenzo Paternò del Cugno Spedaletto, tenente di cavalleria, gran seduttore e giocatore d’azzardo dall’indiscutibile fascino ma dagli orizzonti culturali ristretti. Come l’eroina russa, anche lei, folle d’amore, finì con il mostrarsi in pubblico con Vincenzo così spesso da provocare le gelosie del marito ma, per accidente, divenne vittima della gelosia parallela dell’amante che, prima di puntarsi una pistola alla tempia, la finì a coltellate, sul letto di un albergo romano, lasciando il corpo esanime in un bagno di sangue. Sopravvissuto al colpo d’arma da fuoco, al processo che lo portò all’ergastolo, l’assassino si giustificò dicendo che l’aveva sempre amata.

Colpevoli anche senza colpe per il solo fatto di essere donne, le protagoniste di questo libro somigliano troppo alle vittime di oggi, i cui nomi allungano una macabra lista in cima alla quale c’è la parola “femminicidi”.

Senza intento ideologico, senza giudicare, Nunzia Scalzo narra, sottolinea il potere della calunnia, fa luce sulle vicende umane, spoglia cioè degli orpelli ogni caso e lo riporta all’essenziale: la violenza.

A metà tra storia e cronaca nera, Vite storte, che si avvale delle belle illustrazioni di Riccardo Guardone, è un libro importante perché, tra i tanti che hanno cercato di affrontare l’argomento della violenza sulle donne, pochi sono stati capaci di mettere al centro la voce femminile e farla risuonare con la forza di cui solo chi reclama giustizia è capace.

Emanuela E. Abbadessa

Lettera sui radical chic

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Caro amico,

vorrei parlare di radical chic, dato che lo fanno tutti. Cercherò di andare con ordine.
Mi dispiace, è una cosa un po’ lunga, ma spero avrai la bontà di arrivare in fondo.
Come spero saprai, la locuzione si deve al compianto Tom Wolfe che la coniò nel 1970 in un articolo a commento dell’esclusiva cena organizzata da Felicia Montealegre – moglie di Leonard Bernstein – per raccogliere fondi a favore delle Pantere Nere, gruppo di estrema sinistra che rifiutò il dettato nonviolento di Martin Luther King a favore del concetto di self-defence come strumento di lotta. Poi il termine fu riusato da molti ed esiste in altre lingue. Ma non ho intenzione di raccontarti questa storia, non è questo il punto.
Il punto è che Wolfe desiderava mettere in luce il contrasto tra l’ideale anticapitalistico del movimento e il lusso sfrenato dei partecipanti a quella cena.
Ma raccogliere fondi per un gruppo politico di sinistra, non è esattamente la stessa cosa che aiutare i più deboli. E questo è solo il primo punto. Per altro, quelle critiche al vetriolo non è che Wolfe le facesse dal basso della sua indigenza, tutt’altro.
Tralasciando le ragioni che portarono la Montealegre a dare vita a quella serata, in generale, da sempre, dei più umili, degli ultimi del mondo, dei lavoratori sfruttati e dei vilipesi, sono stati i ricchi a occuparsi. Perché è giusto che chi ha voce e possibilità economiche si faccia carico dei problemi di chi invece non ha abbastanza forza per far sentire le proprie ragioni.
Vorrei per esempio ricordarti che le Dame di San Vincenzo, che da sempre si occupano di carità e assistenza, non sono vedove costrette a campare sette figli in un basso con la reversibilità del marito. Tutt’altro. Sono signore della buona società che mettono la loro disponibilità (economica, di tempo, di prestigio) a servizio dei diseredati.
Anche questo è non solo normale ma addirittura giusto.
Non è che Engels, padre con Marx del comunismo, fosse un morto di fame. Tutt’altro. Era un ricco imprenditore, proveniva da una famiglia di industriali tessili e, anzi, fu proprio dalla visione della condizione dei lavoratori delle filande che elaborò la prima idea della dottrina comunista.
Quindi, ripeto, dove sta il problema?
E vengo così al punto successivo. A essere etichettati come radical chic sono Saviano, la Gruber, Lerner e compagnia bella e a volte, in qualche caso lo hanno detto persino a me. Anche qui occorre fare chiarezza. Dato che io non conosco personalmente nessuno dei personaggi citati, non mi permetto di parlare. Ossia, non so se qualcuno di loro fosse ricco di famiglia o se i soldi li abbia fatti lavorando. Se li avesse di famiglia, rientrerebbe nella tipologia di cui sopra; se li avesse fatti lavorando, non vedo ancora quale sia il problema. È forse una colpa migliorare la propria situazione economica e poi occuparsi dei lavoratori, degli umili, degli offesi? Io non credo. Si tratta di giornalisti che fanno la loro parte nei modi e nei termini che la loro professione consente. Mi spiego: vengono spesso accusati di cavalcare la causa dei migranti (o dei deboli o dei diseredati o degli ultimi) soltanto per aumentare il personale prestigio senza poi, nei fatti, compiere alcun atto concreto. Vorrei dire due cose a questo proposito: 1) nessuno può arrogarsi il diritto di dire cosa facciano gli altri a favore del prossimo, giacché certe azioni si compiono nel silenzio e nella modestia (ricordi la storia della mano destra che non deve sapere cosa fa la sinistra? Puoi leggerla qui Matteo 6, 1-6 e 6-18; oppure ricordati della Pentecoste di Manzoni “Per Te sollevi il povero / Al ciel, ch’è suo, le ciglia, / Volga i lamenti in giubilo, / Pensando a Cui somiglia: / Cui fu donato in copia, / Doni con volto amico, / Con quel tacer pudico, / Che accetto il don ti fa.”); 2) i personaggi in questione fanno esattamente ciò che devono, ovvero parlano dalle sedi preposte e a loro riservate, cioè i media, le pubblicazioni e i social media che, per dire, dovrebbero essere i luoghi privilegiati in cui il giornalista e l’intellettuale esprime il proprio pensiero mentre, di contro, i ministri della Repubblica, dovrebbero evitare al massimo di utilizzare i social media al di fuori dei profili istituzionali e limitarsi a operare fattivamente per il bene comune e non soltanto per quello della loro parte di elettorato dal momento che sono ministri dell’intera nazione.

Ma, dato che come dicevo non conosco i signori in questione, parlerò di me in quanto a volte apostrofata come radical chic. Ebbene: la mia famiglia paterna apparteneva alla borghesia e stava economicamente bene, almeno fino alla morte del nonno che cambiò drammaticamente tutto; la famiglia materna era proletaria, nonna prima contadina e poi operaia, nonno pittore decoratore. Io sono cresciuta nel benessere e senza conoscere alcuna privazione grazie al fatto che i miei genitori hanno lavorato tutta la vita senza risparmiarsi, per garantirmi non solo il necessario ma anche il superfluo, anche privandosi loro stessi del necessario. Tutto ciò che hanno guadagnato lo hanno messo a disposizione della mia formazione per fare di me quella che io sono oggi. Io lavoro e guadagno. Non molto in verità ma mi sudo ogni singolo euro. Quando non arrivo alla fine del mese, non mi vergogno a dire che papà mi aiuta con la sua pensione. Detto ciò, posso permettermi di mangiare bene tutti i giorni. Poi, certo, non amo buttare via il denaro e quindi mi vesto nei negozi cinesi e faccio la spesa al discount, perché il denaro che posso risparmiare preferisco impegnarlo con chi ne ha bisogno o per regalare un po’ di gioia agli amici. Aggiungo però che se voglio acquistare delle scarpe da 400 euro posso addirittura farlo una tantum. Ma indossare delle Louboutin e prendermi a cuore il caso dei migranti, non credo (e non accetto!) che faccia di me una radical chic secondo l’accezione che tu dai al termine.
Avere denaro per acquistare un Rolex non è una colpa e non capisco perché dovrebbe esserlo.
E arrivo all’ultimo punto. Noi, noi radical chic (cogli il sarcasmo di questa frase, spero) abbiamo certamente tanti difetti. Parlo di difetti sociali, nell’approccio al problema, nel dialogo, nella comunicazione. Ne abbiamo, inutile fingere che non sia così. E non tutti questi problemi sono compresi nella terminologia con cui veniamo etichettati.
Dunque ti cito un passo di Rostand: quando un suo avversario, per insultarlo, dice a Cyrano de Bergerac che ha un “grosso naso”, lui va su tutte le furie e fa notare a quello che avrebbe potuto usare mille altri aggettivi, perifrasi, metafore, tutti molto più ficcanti e offensivi ma lui, nella sua pochezza, soltanto “grosso” ha saputo dire.
Ora, se la citazione fosse ancora troppo alta per chi credo non tenga la cultura in grande considerazione, passo a un riferimento cinematografico più popolare: In Mary per sempre, quando il professore impersonato da Placido sente il suo studente ripetere fino allo sfinimento la parola “minchia”, si arrabbia e gli declama il componimento di Belli Er padre de li santi. Così, dopo aver enumerato i moltissimi modi di chiamare il cazzo, lo guarda e gli urla in faccia: «E tu, solo minchia sai dire?»
Ecco: dai, amico mio, sii fantasioso, solo radical chic sai dire?

Devotamente

EE

Lettera sulla legittimità delle proteste

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Cara amica,

mi sono tenuta fuori dalle discussioni riguardo alle molestie sessuali venute alla ribalta a seguito della questione Weinstein. La caciara sviluppatasi mi è parsa indecorosa e, spesso, stucchevole. Però sono stata chiamata a intervistare Melissa Panarello per le pagine siciliane del quotidiano “La Repubblica” e mi sembra che lei abbia detto delle cose interessanti, ponderate e per nulla banali, sia sul movimento #metoo che sulla posizione della Deneuve. Per questo, ti riporto qui quell’intervista apparsa il 28 gennaio 2018.

Devotamente

EE

 

 

Melissa Panarello è una donna che fa parlare di sé e non solo per il retaggio che si porta dietro fin dall’esordio con il romanzo scandalo Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire (Fazi, 2003).

Determinata, franca e capace di restare se stessa sia nella finzione di un libro che davanti alle telecamere di un reality, vive da anni a Roma, circondata dagli amati gatti, e da lì guarda la realtà e la Sicilia con il solito sorriso un po’ smagato che, prima di tutto, rivela la distanza esistente tra l’immagine che il pubblico ha di lei e la sua vera essenza. Ha appena terminato il nuovo romanzo ancora top secret e sta lavorando per la Francia a una sceneggiatura cinematografica.

In un periodo in cui di uomini e donne e di rapporti non sempre canonici tra i sessi, si parla molto, il suo punto di vista non è secondario.

Melissa, il movimento #MeToo e le denunce delle donne del mondo dello spettacolo riguardo alle molestie subite in ambito lavorativo hanno portato alla ribalta un problema sempre esistito. In Italia si sono accese le polemiche, in Francia la Deneuve ha firmato con altre cento donne un manifesto sulla libertà degli uomini di importunare e la Bardot ha condannato recisamente le colleghe americane. Qual è la sua posizione?

Io mi colloco al centro. Vedo comunque come un fatto positivo questa molteplicità di atteggiamenti perché la molteplicità stessa è fondamentale sempre ma soprattutto sui temi femminili. Riguardo al pensiero della Deneuve, credo sia legato a un fatto generazionale: lei appartiene a un tempo in cui gli uomini erano stimolati dalla stessa società a un certo tipo di proposta e le donne accettavano perché rientravano in quello schema mentale. Oggi non è più così, la donna vuole più fortemente autodeterminarsi e non accetta di sottostare a profferte sessuali per raggiungere un obiettivo. D’altra parte, però, abbracciare in toto le posizioni di chi ha denunciato può essere un’esagerazione, sia perché mi pare che si sia creata una sorta di isteria collettiva, sia perché, in fondo, alle donne piace sentirsi desiderate, corteggiate e, portando all’estremo le posizioni del #MeToo, si rischia l’infelicità.

Vuole dire che c’è un po’ di ipocrisia?

C’è ipocrisia. Non ho apprezzato che le attrici americane abbiano associato le loro denunce al fatto di vestirsi di nero. Il nero è lutto e nel momento in cui alzi la testa e denunci, dovrebbe essere una festa, bisognerebbe vestirsi a colori perché la denuncia è una conquista. Sono stanca del fatto che le donne vogliano sempre passare per vittime. Mi è capitato per esempio di sentire amici registi, lamentare le avances troppo pressanti di certe attrici e ho sempre detto loro: denunciate anche voi! Perché tutti devono poter rivendicare un diritto.

Le molestie colpiscono anche le scrittrici?

Non in questi termini. A me non è mai capitato ma… forse perché ho scritto molto di sesso.

Vuol dire che con lei scrittori ed editori soffrono l’ansia da prestazione?

Temo di sì (ride). O, più probabilmente, nel mondo dell’editoria si fa poco sesso.

Quindi una scrittrice che parla di sesso è meno preda di avances sconvenienti?

I lettori a volte esagerano quando mi scrivono ma solo perché hanno un’idea di me che non corrisponde alla realtà. Se poi mi conoscono si rendono conto della differenza.

Parliamo della sua terra. La Sicilia è la patria del gallismo. Lei non vive più a Catania da anni ma, quando ci torna, nota dei cambiamenti rispetto al passato?

Vengo raramente in Sicilia e, quando lo faccio, me ne sto con poche persone ma osservo, anche da lontano, e qualcosa è cambiato. La Sicilia di Brancati non esiste più, il maschio gallo non è più il prototipo associabile alla mia terra e questo mi dispiace. Perché il maschio brancatiano era un personaggio molto più complesso di quanto si possa pensare, era una figura superbamente ambigua perché la sua prorompenza rivelava anche la sua estrema vulnerabilità. Era un romantico, ecco. I siciliani che ricordo avevano poi questa propensione a far combutta, al branco che è un retaggio arabo quindi una componente culturale e sessuale che a me è sempre sembrata bella ma che, purtroppo, si è persa. I maschi siciliani di oggi non sono troppo diversi da tutti gli altri.

E le siciliane?

Il discorso è più ampio. Io, come molti siciliani, vengo da una famiglia matriarcale e dunque ho delle donne un’immagine molto forte: persone che non si sottoponevano alle leggi maschili ma le introiettavano e le rigiravano a loro favore. Le siciliane di oggi le vedo diverse e credo che anche loro abbiano perso così qualcosa di importante della loro natura: si sono adeguate e hanno dimenticato di essere selvatiche. Dovrebbero recuperare il loro feminimo.

Sta parlando di omologazione?

Tra uomo e donna c’è una crepa che non si riempie. A me piace dire che gli uomini sono cani, ti saltano solle gambe e cercano le carezze; le donne sono gatti, altere, eleganti e si concedono quando vogliono loro. Devono essere pari nei diritti e nei doveri ma non uguali.

Quando parla di diritti, pensa anche alla violenza sulle donne e ai femminicidi?

Voglio poter leggere la violenza anche da un punto di vista simbolico perché l’uomo si esprime anche attraverso l’aggressività. D’altra parte, la società nega questi lati in ombra; per esempio si parla poco del “femminile oscuro”. Io sono siciliana e la mia terra è tutta basata sull’elemento femminile archetipico: ha un nome femminile, ha l’Etna che è femmina… lo ripeto sempre che, fuori dalla Sicilia, nessuno ha davvero la percezione chiara di cosa la Sicilia sia.

Emanuela E. Abbadessa

Lettera sulle forme dell’accoglienza

A migrant shouts a slogan as he wears a Tee Shirt with the message, "Open The Way" as he stands on the seawall at the Saint Ludovic border crossing on the Mediterranean Sea between Vintimille, Italy and Menton, France

Caro amico,

qualche giorno fa mi hai chiesto se potevo “sostenerti” alle prossime consultazioni regionali siciliane. Evito di osservare che negli ultimi 35 anni non ho mai avuto tue notizie nemmeno per le feste comandate e che, quando ci siamo rivisti per la solita rimpatriata con i compagni di scuola, hai dimostrato un esemplare distacco nei confronti miei e del resto dei convenuti. Ammetto che certe occasioni non sono facili da digerire per nessuno, compresa me che non amo le riunioni all’insegna della nostalgia. Fatto sta che se solo ti fossi preoccupato di guardare ciò che pubblico sui social network, ti saresti reso conto che chiedermi aiuto per le elezioni era fiato sprecato. Perché, se lo avessi fatto, avresti visto che le mie opinioni politiche sono diametralmente opposte alle tue e, soprattutto in materia di migranti, ti saresti risparmiato la mia risposta tranchant.

Le mie posizioni sono chiare da sempre su questo argomento come su tutti quelli che hanno a che fare con la dignità umana e con i diritti dell’Uomo. Li ho espressi anche, qualche tempo fa, sul numero 6, anno VII, novembre-dicembre 2016 del periodico “Notabilis”. Te li ripropongo oggi.

Devotamente

EE

 

 

Chi ha paura dell’uomo nero?

Qualche tempo fa, un circolo culturale savonese mi chiese di tenere una conferenza su Chopin. Erano gli anni dei più massicci arrivi di stranieri dall’Est e così mi trovai a fare un paragone un po’ ardito, per il gusto di scuotere l’uditorio su un tema che mi sta particolarmente a cuore. Cominciai dicendo che l’epoca della quale avrei parlato aveva qualcosa in comune con quella che noi stavamo vivendo perché entrambe vedevano dei flussi migratori dall’Est all’Ovest dell’Europa. Fu anche in forza di questo spostamento che, dal secondo Ottocento in poi, arrivarono nel cuore del nostro continente alcuni dei musicisti che ricordiamo tra i maggiori dell’Ottocento. A queste parole, una signora dalla sala mi interruppe dicendo che, nel caso citato, arrivò a Parigi Chopin ma in Italia, invece, importavamo solo ladri e assassini. Frenando il desiderio di dare della razzista alla donna in questione, mi limitai a rispondere che di Chopin ne nasce uno su un milione, quindi è probabile che se avessimo voluto trovare un genio anche nel nostro tempo, avremmo dovuto cercare tra molte “persone normali” e, tra queste, chissà quanti di pochi scrupoli ne avremmo scoperti. La sconosciuta tacque e a me sembrò pleonastico aggiungere per esempio che l’Italia (ma anche gli altri paesi del Vecchio Continente), negli Stati Uniti, non esportò soltanto bravi e onesti lavoratori.

Solitamente, quando penso all’incontro tra individui di luoghi differenti del mondo, con culture e abitudini diverse, penso all’arricchimento reciproco. Ed è questa la prima e principale cosa che mi preme perché conoscere l’altro da sé vuol dire mettere in discussione le proprie convinzione e non accogliere necessariamente quelle altrui, quanto piuttosto provare a cambiare prospettiva.

Non amo la parola “integrazione” e amo ancor meno “tolleranza” che contiene il sé il germe dell’accettazione di qualcosa che non ci piace e che, appunto, ci limitiamo a tollerare anche obtorto collo. “Integrazione” non mi piace perché non desidero che un uomo che viene dall’Africa si integri nella mia cultura rinunciando alla sua e, d’altra parte, nemmeno io voglio fare altrettanto; trovo invece proficuo imbastire un dialogo che, alla fine, lasci in ciascuno una parte dell’altro. Esattamente come avvenne con la musica nella seconda metà dell’Ottocento: Liszt e Chopin, entrando in contatto con la forma consacrata dalla nostra tradizione, arricchirono la loro esperienza musicale e, dal canto loro, portarono a noi nuovi ritmi e diverse soluzioni armoniche senza che né la loro musica, né la nostra abbia perduto identità.

La chiusura al nuovo e al diverso, d’altra parte, è sempre e comunque anticamera della stasi e, dunque, della morte. Dallo scambio di geni – così ci insegna la scienza – nascono individui più forti o, più semplicemente, è dall’unione di due patrimoni genetici che nasce una nuova vita. Spostiamoci dal microcosmo dell’individuo al macrosistema di uno stato e scopriamo come il discorso rimanga valido. Proviamo infatti a pensare a cosa è accaduto a quelle realtà politiche che in determinati periodi della loro storia, a causa di regimi totalitari, hanno chiuso le loro frontiere e impedito la libera circolazione delle idee: inevitabilmente sono tutte rimaste ancorate ad un passato statico all’interno del quale le voci forti sono state quasi sempre quelle dei dissidenti.

Dunque, non è solo per sensibilità e per “umanità” che aborro ogni dichiarazione di chiusura agli stranieri, è per calcolo. Non credo che le frontiere vadano protette da chi non sta attentando ad esse, penso piuttosto a una regolamentazione, a un controllo che garantisca libertà, democrazia e giustizia per tutti, che porti a noi il nuovo, il diverso. Voglio imparare ciò che non so da chi non conosco e voglio insegnare ciò che so a chi non conosce me. E alla fine, non m’importa se tra gli sconosciuti incontrerò il nuovo Chopin, perché mi basta sapere che da ciascuno di loro potrò trarre qualcosa che arricchirà la mia cultura ancora prima della mia umanità. (Emanuela E. Abbadessa)

 

 

 

Chat Room. Amore della mamma #11

–  Ciao…
–  Ciao
–  Sono giorni che guardo le tue foto
–  Perché?
–  Sei bellissima…
–  Grazie.
–  Sono V. 20 anni
–  Potrei essere tua madre
–  Non mi interessa…
–  Se lo dici tu
– Stanotte ti ho sognata
–  Addirittura
– Sì

–  Facevamo l’amore e aspettavi mio figlio
– …
–  Ehi?
–  Questo mi pare davvero impossibile, a meno che tu non sia lo Spirito Santo.

–  Cavolo! Allora potresti essere mia nonna!!

(Emanuela E. Abbadessa)

Chat Room. Amore della mamma #10

–  Ciao…
–  Ciao
–  Sei molto bella
–  Grazie
–  Che fai?
–  Sto scrivendo
–  Bello!
–  Sono F. 19 anni
–  Sei molto giovane
–  Anche tu…
–  Potrei essere tua madre
–  Cazzo… FANTASTICO!!!!
–  …
– Ci sei?

–  …
– Ehi???
–  …
– Non rispondi???

–  …
– Mi piaci un casino…
–  …
–  Questo significa che non mi manderai una tua foto nuda?
(Emanuela E. Abbadessa)