Lettera sui sensi della devozione

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Caro amico,

è il 3 febbraio oggi e questa sera, nella mia città dalla quale sono lontana, si aprono le celebrazioni agatine con i fochi da’ sira ‘o tri.

Non sono del tutto sicura di poterti spiegare cosa significhi per un Catanese Sant’Agata. Ma sicuramente è un argomento sul quale tornerò. Intanto però voglio consegnarti queste mie riflessioni, apparse sulla pagina siciliana del quotidiano “La Repubblica”, il 5 febbraio del 2011

(http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/02/05/santagata-le-donne-una-festa-due-facce.html?ref=search)

Visitando la Sicilia nel febbraio del 1775, da Catania, l’abate Domenico Sestini, archeologo e numismatico, si stupiva dell’evidente commistione tra sacro e profano che è inscindibile dal culto stesso di Sant’Agata.

Oggi, apparentemente sempre uguale nel susseguirsi di eventi, dalla Messa dell’Aurora del 4 febbraio al rientro in Cattedrale della “vara” che contiene il busto votivo, la festa sopravvive alla modernità, non soffre alcuna crisi e continua a raccogliere un numero impressionante di devoti. Anzi, cittadini, così come vengono chiamati. Diverse migliaia di uomini pronti a perdere il sonno, a trascinare a braccia il fercolo della santa per le vie della città, ad urlare al squarciagola il loro amore per la Picciridda, incuranti della stanchezza e irriducibili nel culto collettivo di una patrona che forse ha ancora qualcosa da dire alla società contemporanea. Una festa a quanto pare tutta al maschile per onorare una patrona che, col suo rifiuto al proconsole Quinziano, sembrerebbe un’icona protofemminista.

Quella di Agata, pronta a farsi amputare le mammelle pur di non sottostare al suo carnefice, è una vicenda esemplare quanto anacronistica se riportata ad una contemporaneità in cui le avances di un uomo di potere a una giovane sembrano eccellente lasciapassare per ottenere denaro ed esposizione mediatica. Eppure l’exemplum della Santa continua a commuovere. Come si giustifica questa devozione in una società tanto lontana dal modello agatino? E Agata, con la sua determinazione, può essere considerata una sorta di femminista ante litteram, capace di scegliere la fede da seguire e decidere di non concedere il suo corpo anche a costo della morte?

Alessandro Lutri, docente di Antropologia culturale, è cauto: «occorrerebbero indagini specifiche ma se pensiamo alla violazione della femminilità è naturale che una donna possa comprendere più profondamente. Il taglio delle mammelle è un modo per negare la femminilità e quindi la fertilità della donna».

Ma se le donne possono capire meglio perché il culto agatino è prevalentemente maschile?

Salvo Costa, un devoto che ha indossato il “sacco” – l’abito bianco dei cittadini – fin dalla nascita e per 21 anni, rivela che il padre smise di frequentare il circolo dei devoti quando le donne cominciarono a far parte del “cordone”, cioè iniziarono a tirare insieme agli uomini le funi del fercolo. «Mio padre è del ’47, io appartengo a un’altra generazione e non ho vissuto come un fatto negativo l’entrata delle donne nelle celebrazioni. Anzi, mi piace pensare che la santa abbia preteso la partecipazione attiva delle donne alle celebrazioni. Forse è stata proprio lei ad opporsi una tradizione bigotta».

Non sembra d’accordo Simona Laudani, docente di Storia moderna: «Sono laica e leggo il culto di sant’Agata come un mito identificativo». La devozione per lei si sviluppa intorno al Seicento quando in Sicilia si attesta una prevalenza di culti femminili: a Palermo, a san Benedetto il Moro si sostituisce santa Rosalia; a Catania, sant’Agata; a Messina, la Madonna della Lettera. Esiste una continuità tra questi culti e quelli precristiani e quello di Agata è legato a culti pagani locali come quello per Cerere, divinità materna della terra e della fertilità. «L’identificazione con i patroni è l’elemento fondante della comunità urbana», continua la Laudani. «c nel Settecento descrive una festa di sant’Agata senza donne perché la devozione maschile definisce un principio di identità civile che, in particolare nel caso di una santa la cui esistenza è storicamente provata, dà lustro alla città. Per me Agata più che rappresentare un modello protofemminista è l’emblema della donna rassicurante che difende l’onore della famiglia a costo della vita, contro l’elemento dominatore e usurpatore: lei resiste al romano dunque protegge l’identità urbana ed è eroica».

«La vicenda di sant’Agata è l’emblema del maschilismo più becero», afferma Giuseppina Torregrossa che nel Conto delle minne dipana vicende al femminile intorno alla preparazione dei tipici dolci di ricotta della tradizione catanese che hanno la forma delle mammelle. «Siamo così abituati a vedere donne che danno via il proprio corpo per interesse, per denaro, che chi rifiuta e resta fedele a se stessa è considerata un’eroina», continua la Torregrossa, «Agata non lo è solo perché decide di non fare del suo corpo una merce di scambio. Il mondo è pieno di donne anonime disposte a subire le conseguenze dei loro rifiuti. Dove c’è potere c’è maschio, cioè c’è tutto un mondo maschile che crede di poter controllare il corpo della donna».

Dunque le catanesi potrebbero cogliere meglio degli uomini il senso più profondo del messaggio di Agata e destinarle una devozione silenziosa, vissuta quotidianamente nelle rinunce? Potrebbe essere così ma in una festa che secondo Lutri è in continua evoluzione non ci sarebbe da stupirsi se le ragazze chiedessero alla santa delle minne di avere un seno più grosso. Una sorta di chirurgia plastica divina per intercessione della santa a cui san Pietro in una notte restituì le mammelle mozzate.

Una tipologia femminile differente dalle devote che indossano il sacco verde, cioè del medesimo colore dell’abito indossato da Agata durante il martirio, e pretendono il loro posto nel cordone, così come un’altra tipologia era in passato quella delle ‘ntuppateddi, le imbacuccate, delle quali narra Giovanni Verga nella novella La coda del diavolo. In una città in cui la quaresima arriva senza carnevale, dice Verga, per la festa di sant’Agata, le signore potevano esigere il diritto di ‘ntuppatedda: vestendo un abito che le copriva integralmente con un solo un occhio libero, potevano andare tra i cittadini, molestarli, toccarli, esigere regali, senza che i rispettivi padri o mariti potessero protestare. «La ‘ntuppatedda è padrona di sé», scrive Verga, ma in un modo davvero assai profano rispetto alla rivendicazione di autonomia di Agata.

Oggi come allora la festa è una mescolanza di sacro e profano dove la mafia ha avuto il controllo sulla durata della processione, sulle soste del corteo di fronte a determinati esercizi commerciali legati alle cosche e sul business dei fuochi d’artificio. Uno scenario che ricorda le ambientazioni di Ottavio Cappellani. «Solo mafia? Ecstasy, cocaina, alcool, sesso, c’è di tutto per sant’Agata», incalza Cappellani sempre provocatorio e dissacrante. Avrà davvero ragione lui puntando il dito sull’aspetto erotico della devozione? «La festa non ha nulla a che vedere con la vicenda di Agata. E’ un rave. Lei ha scelto il martirio per proteggere il suo corpo e le sue concittadine vanno tra la folla per farsi toccare. Agata non è più una figura cristiana, è una donna della quale mangiare le minne. Altro che festa di sant’Agata, è la festa di santa Ruby».

Devotamente

EE.