Aprile. Un consiglio di lettura

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Che Alan Bennett sia inarrivabile nel raccontare le signore in là con gli anni (Sua Maestà la regina Elisabetta compresa) è un fatto noto. Anche in La signora nel furgone si rimette alla prova con la certa età ma sceglie di raccontare le sue peripezie con una donna, suo malgrado vicina “di casa”, detestabile, sporca e puzzolente. Le situazioni comiche, come è facile intendere, si scatenano in un fuoco di fila. Lei è Miss Shepherd, “in missione per conto di Dio” verrebbe voglia di dire, che ha deciso di sistemare il suo fetido furgone nel vialetto di casa Bennett e torturare il povero scrittore con i suoi pamphlet a base di invettive contro il mondo.

Che dire, il divertimento è assicurato.

Lettera sul verbo amare

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Caro amico,

ti stupisce spesso il mio modo di usare colloquialmente alcune parole che hanno il sapore di tenerezze inconfessabili, di legami “più da presso”. Chiamo spesso amici ed amiche “tesoro”, “amore”. Beh, sai, ho una mamma romana e Roma è una città caciarona e invadente, una città che ti dà del tu, ti invade, occupa i tuoi spazi. E’ naturale quindi che anche il modo di parlare di chi la vive dilaghi nella nostra sfera di affetti. Lo trovo normale e trovo normale vezzeggiare i miei amici così come ho imparato a fare dalla nonna Italia e dalla mamma.

Mi domando però perché sia proprio tu a stupirti di questo mio modo di fare, di dire.

Tu che adoperi il verbo “amare” con tanta leggerezza. Tu che sei disposto a dire “ti amo” con tanta naturalezza.

Le parole sono pietre ed io non sono mai stata capace di usare a sproposito certi verbi.

Il verbo “amare” è fatto così: è invadente, presuntuoso, pesante, è un verbo che spesso pretende più di quanto non sappia dare. Se pensi di dire a una donna “ti amo”, sappi che, quando l’avrai fatto, l’avrai messa all’angolo con quel dono probabilmente inatteso o forse atteso ma più tagliente di un diamante. Sentirsi dire “ti amo” impone una risposta che, in molti casi, non siamo disposti a dare o, semplicemente, non siamo pronti perché ancora timorosi. Cosa puoi rispondere a chi ti dice che “ti ama”? Puoi forse tacere? Sembrerebbe quasi scortese o, peggio, l’ammissione di non possedere un cuore capace di ricambiare quell’offerta. Cosa vorresti dire in risposta? “Sì, anche io ti stimo molto”?

Perché l’amore, a volte, può essere troppo, può invadere il petto, può essere egoista, totalizzante, limitante… E la passione è ben altro ed è sempre bene non fare confusione e decidere lucidamente quando i moti del nostro animo provengono dalla testa, dal cuore o dai lombi.

Io peso sempre le parole che uso e se dico “gioia” è perché il mio interlocutore in quel momento mi sta realmente dando gioia. Se dico “tesoro” è perché ritengo che l’altro sia un tesoro da custodire.

E quando dico “ti voglio bene”, significa che realmente credo che il bene dell’altro sia per me importante. Tanto importante che io potrei addirittura non farne parte e dunque mi impegnerò per realizzare il bene dell’altro con i mezzi a mia disposizione.

E così, spererei di chi usa le sue parole con me. E per dire “ti amo” immagino si presupponga la presenza di un vero uomo. E di una vera donna.

Così, ti lascio con una pagina che amo molto, tratta da La recita di Bolzano di Sándor Márai, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2000.

 

E Nanette, la vedova, fissò lo sguardo sul pavimento e disse gravemente, con l’accento di chi evoca un ricordo: “Un uomo”. Rimasero così, meditabonde, quindi cominciarono a ridere, si inginocchiarono l’una dopo l’altra davanti al buco della serratura e sbirciarono dentro la stanza, provando una gioia indicibile. […] Era come se attraverso il buco della serratura avessero visto finalmente un uomo, come se, nell’attimo stesso in cui avevano posato gli occhi sullo sconosciuto immerso nel sonno, avessero sottoposto i loro mariti, i loro amanti e gli altri uomini incontrati fino a quel momento a un esame imprevisto. Come se fosse veramente un fatto eccezionale, clamoroso, vedere un uomo non bello, anzi piuttosto brutto, che non aveva né tratti delicati né un portamento gagliardo, di cui non si sapeva nulla se non che era un imbroglione, un frequentatore assiduo di bische e taverne, uno che viaggiava senza bagaglio, uno di cui si sospettava perfino che il suo nome non fosse quello vero, e che aveva una fama, come tanti altri bellimbusti, di trattare le donne con sicumera, disinvoltura e arroganza: e tuttavia era come se quella specie di fenomeno fosse una rarità. Come se, di fronte a quell’uomo che non conoscevano ancora, gli uomini che avevano conosciuto fino a quel momento si fossero rivelati per quelli che erano. […] Un uomo è dunque un fenomeno così raro? Si domandarono in cuor loro le donne di Bolzano. La loro domanda non era affidata alle parole, bensì ai sentimenti. E la risposta, che non lasciava adito a equivoci, fu un tuffo al cuore: “Sì, il più raro che ci sia”.

Perché gli uomini  – come esse intuirono confusamente in quell’istante, con il cuore che palpitava –  erano padri, mariti e amanti cui piaceva ostentare atteggiamenti virili, far risuonare la spada, pavoneggiarsi con titoli e cariche, esibire il loro patrimonio, e intanto correre dietro a tutte le gonnelle; stando alle voci che circolavano, in genere erano fatti così, sia a Bolzano che altrove. Ma riguardo a quell’uomo si dicevano cose ben diverse. […] avevano visto un uomo, semplicemente un uomo. […] Compresero che un vero uomo è un fenomeno raro quanto una vera donna. Un uomo non vuole dimostrare nulla alzando la voce e facendo risuonare la spada, che non canta come un gallo e non pretende tenerezza diversa da quella che è in grado di offrire, che nelle donne non cerca né madri né amiche e non corre a rifugiarsi tra le braccia dell’amore o dietro le sottane delle femmine, un uomo che vuole soltanto dare e ricevere, senza fretta e senza avidità, perché ha dedicato l’intera esistenza, ogni sua fibra, ogni barlume della sua coscienza e ogni muscolo del suo corpo al richiamo imperioso della vita: un uomo simile è un fenomeno estremamente raro.

 

Devotamente

EE.

Dicembre. Un consiglio di lettura

Storie ciniche

 

 

Deve essere un mio difetto, ma i peccati altrui non mi scandalizzano – sempre che non mi riguardino personalmente.

 …e allora sono senz’altro cinico, e pure odioso, se vuoi.

 

 

Si dovrebbe passare tutta la vita a leggere e rileggere William Somerset Maugham. Immenso nei suoi romanzi e tagliente nei racconti. Cattivo fino al midollo, implacabile nel guardare uomini e cose senza alcun filtro e con la capacità di dare a tutto il nome giusto senza farsi tentare da un eventuale “politicamente corretto” che negli anni che visse si chiamava semplicemente buona educazione.

Nelle sue Storie ciniche, edite da Adelphi, sono raccolti alcuni dei racconti tra i tanti, racconti in cui più crudamente le miserie umane vengono rappresentate.

Giornalista, scrittore, medico, drammaturgo e agente segreto, Maugham racconta i brevi tratti di strada fatti con una serie di personaggi tanto reali da risultare il più improbabile campionario delle miserie umane, dei capricci, degli egoismi, delle viltà, delle vanità.

Agosto. Un consiglio di lettura

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Il triangolo no, non l’avevo considerato! Ma forse dovremmo considerarlo?

Che i matrimoni siano catene così pesanti che per reggerle bisogna essere in due e spesso anche in tre non è certo una novità. E sul tema sembra proprio che non si possa scrivere più nulla di originale o anche di minimamente interessante.

Ma non è così. Se si cerca la sorpresa sull’argomento è bene rivolgersi ad Andrew Sean Greer che con La storia di un matrimonio (ripubblicato da Adelphi anche nei tascabili) è capace di consegnarci la più sorprendente visione di triangolo amoroso mai raccontata. A metterci sull’avviso del fatto che ci troviamo di fronte ad un romanzo psicologico dove non leggeremo lotte per gli alimenti o gli affidamenti dei bambini è la stessa protagonista, Pearlie Cook: “Crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo”, ci dice riferendosi ad un ottimistico entusiasmo da sogno americano e non solo. Ma i suoi sei mesi di scoperta dell’altro sono un viaggio nella memoria alla ricerca degli infinitesimali segni della passione per qualcosa che deve necessariamente essere oggetto di passione.

E guardare in mezzo alla nebbia della San Francisco del 1953 a volte è difficile, occorre uno sforzo dell’anima che inquieta e toglie il sonno e le energie che pure la casa, i parenti e il bambino richiedono.

La sorpresa poi è tutta letteraria anzi, questo breve romanzo è un vero e proprio manuale per la messa a punto del colpo di scena letterario al di fuori del noir, del thriller, del giallo. E la distanza tra La storia di un matrimonio e un noir è pari a quella che c’è tra noi e ciascuno dei nostri simili. Soprattutto di quelli che crediamo di conoscere meglio.

 

 

Maggio. Un consiglio di lettura

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Cosa succede se un simpatico signore dello Yorkshire decide di unire all’innato humor un po’ di sesso? Succede che alle solite manager in cerca di emozioni a base di bende, fruste e manette si sostituiscono insospettabili signore della buona borghesia, decisamente in là con gli anni. Sono proprio due signore borghesi in vestaglia di flanella e messa in piega fatta dal parrucchiere le protagoniste di Due storie sporche di Alan Bennett (edito in Italia da Adelphi) che, anche per parlar di libri, nel divertentissimo La sovrana lettrice, scelse una lady agée decisamente uncommon, come recita il titolo originale, nientemeno che Her Majesty Queen Elisabeth II.

Le due vicende corrono sul filo dell’improbabilità ma è proprio l’idea che certe cose non possano accadere davvero (tema caro a Bennett già all’epoca di Nudi e crudi) a rendere le loro storie incredibilmente e surrealmente credibili. Bennett non ha bisogno di sesso spinto, anche se le avventure delle sue due protagoniste sono spinte oltre il limite della buona creanza borghese, o di linguaggi scurrili, gli basta restare fedele a una cifra impertinente e sorniona.

Lettera sui piaceri della lettura

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Caro amico,

so che ami molto i libri che parlano di libri. E ce ne sono davvero molti. Uno molto bello di Ottavio Cappellani, L’isola prigione (Mondadori, 2011), ha dei risvolti inquietanti sui quali forse sarà il caso di tornare.

Ma oggi mi è tornato in mente un libro di Bennet e da quello vorrei partire.

 

A Windsor quella sera c’era il banchetto ufficiale, e mentre il presidente francese si affiancava a Sua Maestà la famiglia reale si schierò alle loro spalle, e la processione si avviò lentamente verso la sala Waterloo.

«Adesso che possiamo parlarle a quattrocchi,» disse la regina sorridendo a destra e a sinistra mentre avanzavano fra gli ospiti sfolgoranti «vorremmo tanto chiederle la sua opinione sullo scrittore Jean Genet».
«Ah» disse il presidente. «Oui».
La Marsigliese e l’inno nazionale li costrinsero a interrompersi, ma una volta seduti Sua Maestà riprese da dove era rimasta.
«Omosessuale e avanzo di galera… ma era davvero come l’hanno dipinto? E il suo talento» e sollevò il cucchiaio da consommé «era davvero così straordinario?».
Non essendo stato ragguagliato sul glabro drammaturgo e romanziere, il presidente si guardò attorno stravolto in cerca del ministro della Cultura. Ma costei era immersa in conversari con l’arcivescovo di Canterbury.
«Jean Genet,» ripetè premurosa la regina «vous le connaissez?».
«Bien sûr» disse il presidente.
«Il nous intéresse» ribadì Sua Maestà.
«Vraiment?». Il presidente posò il cucchiaio. Lo attendeva una lunga serata.

 

Qualche anno fa uscirono uno dopo l’altro vari libri “che parlavano di libri” e la cosa ha suscitò anche qualche graziosa polemica sulla stampa nazionale (ricordo una “vespa” sul Domenicale del “Sole” a proposito di Augias ad esempio). Il piacere della lettura, di questo si discuteva più o meno e senza dover per forza ricorrere alle patologie del Mal di Montano di Enrique Vila-Matas (Feltrinelli, 2005).

Tra i libri “che parlano di libri” a me piacque Il Club Dumas di Arturo Pérez-Reverte (Tropea, 1997) dal quale fu tratto da Polanski un discutibile film, La nona porta (1999). Ma non è di questo che volevo dire (ecco, vedi, parlare di libri fa venir voglia di “parlare di libri”!).

Ricordavo ieri la discussione a proposito dei “piaceri della lettura” e dei libri che dovrebbero far venire voglia di leggere. Qualcuno ha notato acutamente che se uno non ama i libri non comprerà mai un libro che insegni come amare i libri (mettiamo: io, come il commissario Montalbano, compro “Il Sole 24Ore” solo di domenica, butto il giornale e tengo l’inserto e so che esiste un libro forse pubblicato da Hoepli che s’intitola Come si legge Il Sole 24Ore ma non lo comprerò mai perché non m’interessa imparare a leggere un quotidiano di economia a meno che non cominci a giocare al Superenalotto, mi trovi a far 6 e decida, follemente, di amministrare da sola la mia inedita ricchezza). Dunque, i libri che insegnano ad amare i libri, nel migliore dei casi saranno letti solo da chi i libri li ama già (osservavo qualcosa di simile qualche tempo fa su una rivista di musicologia a proposito dei manuali di storia della musica per “non addetti ai lavori”).

Chi non legge di solito dice che “non ha tempo” per farlo. Sciocchezze, perché se si ha voglia di fare una cosa la si fa e basta e il tempo lo si trova. E poi “non ho tempo” è ciò che dico io a proposito della ginnastica: sono certa che troverei il tempo per fare sport se non avessi sempre pensato che per il mio corpo (ma anche per il mio spirito) l’apertura e la chiusura dello sportello del mio frigorifero è già uno sforzo sufficiente.

Avevo cominciato con Bennet e a lui ritorno. La sovrana lettrice di Alan Bennett (trad. it. di M. Pavani, Milano, Adelphi, 2007) del quale ho riportato poco sopra l’incipit è un libro che parla di libri e che consiglio anche perché era dai tempi del mio incontro con le pagine di Saul Bellow (più o meno) che non ridevo così di gusto leggendo.

Il libro narra in modo assolutamente irresistibile dell’epifania libresca nella vita nientemeno che di Sua Maestà la Regina Elisabetta. Personaggio delizioso, tra l’altro. Non aggiungerò altro se non il fatto che, con estrema leggerezza, per quanto non dica cose “inedite”, Bennet offre un gran bel punto di vista a proposito dei “piaceri della lettura”. E tanto per far venir voglia di leggerlo ne trascrivo qualche passo.

Quando qualcuno chiede alla regina se in passato fosse stata “ragguagliata” su un certo libro lei risponde:

 

«Certamente,» disse la regina «ma ragguagliare non è leggere. Anzi, è l’esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre».

O ancora:

 

L’attrattiva della letteratura, rifletté, consisteva nella sua indifferenza, nella sua totale mancanza di deferenza. I libri se ne infischiavano di chi li leggeva; se nessuno li apriva, loro stavano bene lo stesso. […] I libri non sono per nulla ossequiosi. Tutti i lettori sono uguali […].

 

Uguali di tutto il mondo, leggetelo dunque.

Devotamente

EE.

Lettera sul ritorno della massaia perfetta

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Cara amica,

il giochino fatto ieri a proposito delle regole del corteggiamento, mi ha fatto riflettere più attentamente – e forse più seriamente – sulle ragioni di questa sorta di rigurgito degli anni Cinquanta.

Mi consentirai di prenderla un po’ alla lontana e provare, con leggerezza, ad osservare il fenomeno. Anche partendo da un libro se vuoi. Temo che al centro di tutto ci sia la crisi.

Ma cos’è questa crisi?, come recitava Rodolfo De Angelis in una canzonetta del ‘33. Ma se la crisi c’è tanto vale non lasciarsi scoraggiare. Sto pensando a un libro e a una donna. Una donna (e che donna), ad esempio, che di fronte alla crisi (e che crisi) si rimbocca le maniche. E che maniche, mi verrebbe voglia di dire. La crisi, tanto per essere precisi, è quella con la C maniuscola, anzi, con la G e la D, maiuscole, la Grande Depressione. La donna, per fartela breve è Mildred Pierce, protagonista dell’omonimo romanzo recentemente ristampato in brossura da Adelphi di James M. Cain, altrimenti noto come autore noir di quel tal postino che suonava sempre due volte. Ferocia è la parola d’ordine per un autore di noir, si sa. Ma come fare quando la protagonista è un angelo del focolare con due gambe mozzafiato, americana per di più, capace di preparare torte fragranti e piene di crema, dentro la sua solita vestaglietta a fiori? Semplice, basta aggiungere agli ingredienti un po’ di melò. Gli altri ingredienti? Caparbietà, un fondo di scetticismo, qualche uomo inutile e una figlia così cattiva che non sfigurerebbe tra le pagine di William Somerset Maugham. Il gioco è fatto e la bella storia della casalinga californiana diventa un voyage à l’enfer.

Pubblicato per la prima volta nel 1941, Mildred Pierce resta uno dei capolavori della narrativa statunitense e una sorta di breviario paradossale che rileva la radice malata dell’illusorio sogno americano della ricchezza individuale.

E questa è una delle premesse e, non da ultimo, un mio consiglio di lettura.

Ieri osservavamo insieme che esistono canali televisivi guardando i quali sembra di essere piombati negli anni Cinquanta: programmi che insegnano a cucinare, vestirsi, truccarsi, fare la manicure, apparecchiare la tavola, ospitare gli amici, uscire col partner… E anche le conduttrici hanno spesso questi deliziosi look anni Cinquanta. Ora, mi sembra ovvio osservare che fino a vent’anni fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Le donne pensavano alla carriera e se qualcuno avesse proposto alle donne un manuale per servire in tavola o per vestirsi, come minimo, avrebbe ricevuto un coro di dissensi. Naturale, la donna di allora, forte della pillola, conquistata la libertà di divorziare e abortire ormai da diversi anni, era proiettata felicemente verso il mondo del lavoro, sebbene costretta sempre a dividersi tra obblighi familiari e carriera.

Però, se tanti programmi oggi insistono sulle mansioni domestiche, siamo autorizzati a pensare che, forse, ci troviamo in un’epoca di riflusso? Non sarebbe la prima volta e certamente non sarà l’ultima: nel 2009 Pierluigi Battista firmava su “Corriere della sera” una bella analisi in proposito http://archiviostorico.corriere.it/2009/novembre/22/1980_anno_del_Riflusso_reso_co_9_091122058.shtml.

Torno così alla mia ispiratrice, Mildred Pierce, e mi domando il perché della nuova moda. A causa della crisi economica anzitutto direi, ma anche a causa dell’invecchiamento della società. Una società fatta principalmente di anziani e adulti (il boom delle nascite degli anni Sessanta ha necessariamente portato oggi ad una popolazione che si aggira intorno ai cinquant’anni) richiede prima di tutto di rapportarsi al mondo secondo le regole delle buone maniere perché la società anziana, “adulta” se preferisci, comprende questo codice che gli è stato insegnato (poco importa se in gioventù se ne sia dimenticato). Di fronte alla crisi ci si aggrappa alle poche certezze che si hanno, ovvero il lascito familiare, le convenzioni, le regole nelle quali siamo stati cresciuti (e questo, a mio parere, spiega anche perché negli scrittori esordienti più giovani i drammi familiari siano molto presenti e, spesso, vengano sempre risolti o elaborati nelle maglie di figure di “anziani”, i nonni, ad esempio, o, in altri sensi, propongano un amore romantico, “da favola” come quelli che si presume fosse possibile vivere fino a cinquant’anni fa).

Inoltre, mancando il lavoro, si riciclano le regole delle nonne sull’economia sul riciclo del cibo, degli abiti, dei mobili vecchi: Carla Gozzi rivoluziona gli armadi delle donne che non sanno vestirsi senza invitare allo shopping nei grandi atelier ma dimostrando loro che in ogni guardaroba esistono capi da accoppiare in maniera appropriata per nuove eleganti soluzioni. Paola Marella viene in soccorso di inquilini scontenti del loro arredamento spostando semplicemente mobili e quadri, mettendo qualche pianta e un tappeto. Non sono più i tempi in cui anche la famiglia media può aspirare a un paio di pezzi di design per abbellire il soggiorno.

Non sono riflessioni secondarie, credo.

Ecco dunque da dove nasce, secondo me, l’idea di fornire di continuo consigli prontuari e decaloghi per ogni momento della giornata, dentro e fuori casa.

Il perché si ricorra poi a un passato non prossimo è semplice: la massaia degli anni Cinquanta sapeva e doveva economizzare perché non erano ancora gli anni del boom ma quelli della ricostruzione e, per di più, proveniva in linea diretta da una madre depositaria di segreti di buona amministrazione domestica ancora ottocenteschi (quelli appunto di madri nate alla fine dell’Ottocento o nei primissimi anni del Novecento). La cinquantenne di oggi è una madre che, in questo senso, non può essere presa a modello perché, in gioventù, di tutte le regole tramandate in famiglia di donna in donna, poco si interessò. Visse gli anni appunto del boom in cui la parola d’ordine era liberarsi del vecchio per acquistare il nuovo, vide le madri (sì, il nuovo avanzava e il vecchio e le vecchie regole, veniva accantonato in un brevissimo spazio di tempo) buttare i mobili dei genitori per acquistare discutibili pezzi di tek in stile svedese, caricare la lavatrice anche per pochi capi, ignara delle necessità dell’ambiente, finendo col buttare anche il proverbiale bambino con l’acqua del bagnetto.

Devotamente

EE.

Lettera sulla fortuna mediatica

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Caro amico,

mi chiedi come sia possibile leggere un brutto libro solo per la fama del suo autore. Perché no, mi domando io. Leggere è una libera scelta e non è detto che ciò che a te non piace non debba piacere anche agli altri. Immagino però che tu volessi riferirti al fenomeno mediatico, al fatto che certi autori andando in televisione nelle “trasmissioni giuste” (due o tre al momento) godano alla fine di una popolarità a priori con la conseguenza che l’essere in questo o in quel salotto televisivo li porti poi inevitabilmente in classifica.

Questo è vero ed è un fatto: la televisione fornisce immediata e vastissima popolarità. Alcuni casi recenti sono evidentissimi. Ma quello che dici sarebbe vero se tutta la classifica dei libri più venduti fosse frutto del fenomeno mediatico. Perdonami ma per provare la validità di un ragionamento sono stata abituata a portarlo alle estreme conseguenze. A ben vedere non è così e, andando un po’ indietro nel tempo, potrei citarti tra i tanti il caso di Wisława Szymborska edita da Adelphi che scalò le classifiche nazionali divenendo popolarissima in Italia e con un genere come la poesia che difficilmente produce simili successi di mercato.

Sarebbe meglio dire forse che il mercato dei libri è retto da un’alchimia, da una formula magica della quale nessuno conosce la ricetta: tutto aiuta e nulla è necessariamente determinante. Sembra che nemmeno le grandi case editrici  conoscano la ricetta magica. Ci sono esordienti come Paolo Giordano che diventano casi editoriali e altri – i più – che al di là del valore dei loro prodotti (anche usciti assai bene) raggiungeranno a stento il migliaio di copie. Ovvio che la crisi e l’assottigliamento delle vendite rende più evidente il fenomeno che tu lamenti. Che ne pensi di rassegnarti all’evidenza?

Direi quindi che la cosa più bella del leggere sia la democraticità dei libri e la libertà di chi li sceglie e li legge. E se tu ami un autore o un libro sostienilo! Compralo, regalalo, parlane, consiglialo agli amici. Il passaparola, si sa, è fondamentale per i libri.

E concludo con una storiella deliziosa a proposito dell’amore dei lettori per un determinato scrittore. Il racconto me lo fece un amico che, alcuni anni fa, si trovava un po’ per caso in una libreria di periferia decisamente disordinata e malconcia. Mentre se ne stava lì a far trascorrere una mezzora libera in attesa di un appuntamento, entravano due donne, madre e figlia. La madre chiedeva trafelata al libraio se fosse arrivato l’ultimo romanzo di Carofiglio. Alla risposta affermativa del libraio le due donne iniziavano un divertente battibecco su chi delle due avrebbe potuto leggere Carofiglio per prima. Assistendo alla scena, il libraio interveniva dicendo timidamente che il romanzo in questione a lui non era piaciuto quanto gli altri e, dunque, forse non valeva nemmeno la pena litigarsi il primato, prima o dopo l’avrebbero letto entrambe. Al che la madre ribatteva: «Ah, non le è piaciuto? Guardi, per me Carofiglio potrebbe scrivere anche l’elenco telefonico e lo leggerei lo stesso».

Un simile amore per un autore mi ha molto intenerita. Quando sentii questo aneddoto, mi chiesi se anche io avrei mai potuto dire qualcosa del genere di uno scrittore e, in breve, mi resi conto di non aver mai avuto uno scrittore “del cuore”, uno al quale cioè giurare imperituro amore leggendo poi ogni sua pagina. O, almeno, questo era vero fin quando non mi imbattei negli Scapoli della Spark. Beh, da quando ho conosciuto lei devo dire che, sì, per me la Spark potrebbe scrivere pure l’elenco del telefono e persino i menu dei MacDonald e la leggerei ugualmente.

E per di più, in quanto defunta, non potrò mai vederla alle Invasioni barbariche!

Devotamente

EE.