Lettera sulle bellezze siciliane

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Caro amico,

sono rientrata da poco dalla Sicilia e, tornando al nord, molti mi dicono di invidiarmi per aver avuto ancora la possibilità di godere della bellezza della mia terra. Ché la Sicilia di bellezze ne ha molte. Ho cercato di raccontarne alcune letterarie in un articolo apparso su “Notabilis” (anno IX, n. 3, maggio-giugno 2018)

 

Di tante bellezze superba

«Non invidio a Dio il paradiso perché sono ben soddisfatto di vivere in Sicilia.»

(Federico II di Svevia)

 

Nel De rerum natura, Lucrezio riteneva la Sicilia un luogo straripante di bellezza: «giusto è che questa terra, di tante bellezze superba alle genti si additi e molto si ammiri, opulenta d’invidiati beni e ricca di nobili spiriti» e, così scrivendo, metteva in relazione sia la geografia dell’Isola che l’essere abitata da individui in qualche modo superiori agli altri.

Il che non è affatto secondario dato che la differenza tra l’animale e l’uomo si articola anche intorno al concetto di bellezza: la natura è bella in se stessa, gli animali lo sono ma, al contrario dell’essere umano, non sono in grado di produrne.

Certo, il bello a cui si riferiva Lucrezio resta comunque in qualche modo lontano dall’altro – forse più commestibile e a volte scontato – raccontato dalla letteratura successiva.

Spesso oleograficamente rappresentato, nei romanzi, il panorama naturale siciliano oscilla tra l’intento più o meno celato di fornire immagini da cartolina e quello di mettere in evidenza il contrasto tra la bellezza naturale e la bruttezza della speculazione edilizia, del malaffare, delle cattive amministrazioni.

C’è però un tipo di bellezza che, nella letteratura isolana, campeggia su tutto e che resta immutabilmente legato alla Sicilia, non scalfito dalla contemporaneità e vivido anche quando attinge a piene mani da altri stereotipi. È la bellezza delle donne.

Spesso latrici di misteri ineffabili, le siciliane descritte dai romanzieri sono portatrici di un erotismo raffinato e a tratti selvatico; sono apparentemente mute spettatrici capaci di cambiare il corso degli eventi stando dietro ai fornelli o incarnano un modello di pasionaria sanguigna che trae il proprio fascino proprio dalla forza scomposta del suo carattere.

Alla costola di Adamo Andrea Camilleri ha dedicato un libro, Donne (Rizzoli, 2014), e così ne parla, «l’esempio assoluto del meglio della donna siciliana: riservata, tenace, determinata, convinta delle proprie idee e pronta a battagliare per esse, e nello stesso tempo dolcissima, generosa, comprensiva, sensibilissima», mettendo dunque insieme sia la natura passionale che quella accogliente.

Un po’ madre, un po’ maliarda, per gli autori isolani la donna sicula esprime il massimo del suo potere nella seduzione. Così, persino una “tredicenne poco curata e bruttina” come Angelica Sedara, finisce col diventare un’epifania, l’incarnazione stessa dell’eterno femminino declinato al siciliano, e, in barba anche alle aspettative del Principe di Salina che immaginava di incontrare una “pastorella agghindata”, irrompe nelle pagine di Tomasi di Lampedusa con la forza di un ciclone, tanto di diventare una sorta di modello ideale di bellezza locale, capace di mescolare sapientemente l’irregolarità del tratto mediterraneo all’altera simmetria normanna: «la prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola; Tancredi sentì addirittura come gli pulsassero le vene delle tempie. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci mai. Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti di soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé l’ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza. Molti mesi dopo soltanto si seppe che al momento di quel suo ingresso trionfale essa era stata sul punto di svenire per l’ansia. Non si curò di Don Fabrizio che accorreva verso di lei, oltrepassò Tancredi che sorrideva trasognato; dinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda disegnò un lieve inchino e questa forma di omaggio inconsueta in Sicilia le conferì un istante il fascino dell’esotismo in aggiunta a quello della bellezza paesana.»

A dimostrare quanto questo archetipo muliebre sia vivo, basti vedere gli spot pubblicitari di Dolce&Gabbana, ad esempio, che a esso fanno riferimento. Anche Mario Di Caro, d’altra parte, quando nel 2015 uscì per Mursia con La capitana dell’isola di nessuno, costruì una combattente non troppo lontana dal modello qui descritto: «Donna Carmen ormai aveva più di cinquant’anni e possedeva curve assai prosperose, lontane dal corpo di pantera di tanto tempo prima, ma, per effetto della stessa magia, tirava fuori la grazia di una ballerina quando ancheggiava per accompagnare la malìa ruffiana dei ritornelli. Aveva ballato per la luna, da ragazza, quando le sue cosce erano tornite, per suggellare le promesse più solenni. Le sue canzoni impastate di dialetto sembravano arrivare da un mare lontano, umide di pianto e di sale, e restituivano memorie di quaranta e cinquant’anni prima. E il sapore delle sue polpette di melanzane riempiva il palato con una forza seduttrice».

L’elemento magico è parte della bellezza femminile siciliana e si esemplifica nella sapienza culinaria, come avviene nella citata Carmen preparatrice di manicaretti alla melanzana e nelle donne di Giuseppina Torregrossa: Anciluzza, protagonista de L’assagiatrice (Rubettino, 2007) e nelle due Agata del suo Conto delle minne (Mondadori, 2010).

Maghe ai fornelli e non solo, bellissime da spettinate, nelle loro vestagliette a fiori, con una goccia di sudore che scorre nell’incavo del seno e così vicine alle sudamericane narrate dalla Esquivel e soprattutto da Jorge Amado (Doña Flor e Gabriela sembrano i modelli di riferimento), questi modelli archetipici si colorano di ancestralità venendo in contatto con la loro natura più ferina. Si ricongiungono a quella natura bella che non produce bellezza e ne diventano altrettanti emblemi.

È il caso di Catena Dolce, che la natura ha costretto a diventare selvatica come una cavalla brada. La protagonista del romanzo d’esordio di Carmela Scotti (L’imperfetta, Garzanti, 2016) vive in una dimensione misterica e attinge la sua bellezza dal contatto con la natura (che conosce come una bestiola dei boschi, capace di distinguere le erbe salvifiche da quelle velenose) e da un incoercibile attaccamento alla vita.

Magico è anche il bello di Angelica Termini di Villafiorita, la donna scimmia de L’amante delle sedie volanti (La Tartaruga, 2011), nata dalla fantasia di Maria Tronca che della congiunzione tra bellezza muliebre ed eros è indagatrice attenta.

Belle in assoluto e perché donne, belle anche quando non lo risultano davvero, sono le protagoniste dei romanzi di Tea Ranno, riportate tutte in vita nel suo ultimo romanzo (Sentimi, Frassinelli, 2018).

È così che, anche per il narratore siciliano, il concetto stesso di bellezza resta indissolubilmente legato all’idea della donna. In un carosello di more dagli occhi neri o color smeraldo come il mare, bionde come matriarche normanne e rosse (lo è la Maddalena Virlinzi di Complice lo specchio di Antonio Marangolo, uscito da Mondadori nel 2014) per il capriccio di un gene che ha vagabondato per secoli, è alle donne che gli scrittori isolani affidano il compito di esemplificare il Bello. Da Brancati a Patti, da Pirandello a Sciascia, fino ad arrivare alla Betty di Cappellani, «archetipo della buttanaggine termonucleare globale incarnata in quaranta chili di tettine e sandali» (Sicilian Comedi, Sem, 2017), come diceva proprio Vitaliano Brancati in Don Giovanni involontario, «la donna è il grande tema! Lo capiscono tutti quello». (Emanela E. Abbadessa)

Lettera sulla centralità della letteratura siciliana

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Cara amica,

ci ritroviamo spesso a parlare di scrittura e di scrittori. Qua e là, si sente spesso riparlare di “centralità” della letteratura siciliana. Non sempre mi trovo d’accordo con te ma ho provato a mettere insieme qualche dato e la mia analisi – che ti riporto – la puoi trovare in un mio articolo apparso sull’ultimo numero di “Notabilis” (anno VII, n. 2, marzo-aprile 2017)

Buona lettura.

Devotamente

EE

 

Un fantasma siciliano si aggira per l’Europa.

 

La certezza della loro superiorità i siciliani l’hanno sempre avuta, sarebbe inutile negarlo. Soprattutto nell’ambito della letteratura. Anche su questo indagava Matteo Collura in apertura di un volume uscito nel 2013 da Longanesi, Sicilia. La fabbrica del mito, passando poi ad analizzare come i suoi conterranei abbiano creato miti locali da tutto, persino dai fatti delittuosi.

Chiedendo a un siciliano della letteratura isolana, questi ne affermerà la grandezza assoluta e superiore a ogni altra realtà regionale italiana; citerà la scuola federiciana, Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini e proseguirà lungo i secoli con Pirandello, Quasimodo, con De Roberto (partenopeo ma siciliano d’adozione si potrebbe dire) e Tomasi, Verga, Brancati, Sciascia, Consolo, Bufalino fino ad arrivare ad Andrea Camilleri, ambasciatore inarrivabile del giallo nazionale in tutto il mondo. Un atteggiamento del genere fa sì che ogni siciliano finisca col sentirsi parte di questa gloriosa tradizione, praticamente scrittore per volontà divina, per legge genetica, anche nel caso in cui non abbia mai messo su carta altro se non la lista della spesa. Di contro – e questo sottolineava Collura – interrogandosi sulla letteratura, poniamo, piemontese, non molti andranno oltre un paio di nomi pur a fronte di una non indifferente messe di autori. E Umberto Eco stesso non pare abbia mai esaltato la propria tradizione regionale o l’eccellenza dei letterati suoi conterranei. Eppure il Piemonte ha dato i natali a Pavese, Gozzano, Soldati, Faldella, Fenoglio, Primo Levi e Carlo Levi e ancora Rodari, Carlo Fruttero fino ad arrivare a Paolo Giordano, tradotto in tutto il mondo con la sua Solitudine dei numeri primi.

Altrettanto si potrebbe dire di un po’ tutte le altre regioni italiane, compresa la Toscana che con la Sicilia si contende il primato riguardo al battesimo dell’idioma nazionale.

Dalla loro parte, i siciliani hanno l’orgoglio, tratto caratteriale molto sviluppato, e non è questo il luogo per un’analisi sociologica per spiegarne le ragioni.

A confermare però l’ingombrante sicilian pride, è giunto qualche tempo fa uno studio secondo il quale tra il 2009 e il 2014 sono stati pubblicati in Italia ben 125 titoli ambientati in Sicilia (stima realizzata per difetto, si può supporre) e, per la maggior parte, scritti da autori siciliani. Il che fa immaginare una particolare attenzione dell’editoria per gli autori isolani e conseguenti lunghi periodi di “dominio siculo” delle classifiche di vendita. Così, nei fatti è grazie principalmente al prolifico Camilleri e poi a tutta una serie di altri nomi cari al grande pubblico, dalla Maraini alla Agnello Hornby, dal palermitano Alessandro D’Avenia ad Alajmo.

L’analisi, comunque, sarebbe passata quasi inosservata se Luigi Mascheroni, dalle pagine del “Giornale”, il 10 marzo scorso, non ne avesse fatto il pretesto una gustosa intervista a Salvatore Nigro sul “caso Sicilia”.

Sebbene, in questa sede, appaia riduttivo riferirsi solo agli scrittori e tenere fuori gli editori siciliani maggiori e minori, o tacere del fenomeno Sellerio che, come dichiarava tempo fa Giorgio Ficara è la casa editrice più innovativa del panorama nazionale, sarà bene ripartire dalle risposte di Nigro.

Secondo lo studioso (anche lui, per altro, gloria sicula), non è più possibile parlare di “letteratura siciliana”. Intesa come scuola o come corrente omogenea, si sarebbe infatti esaurita con Sciascia, Consolo, Bufalino e Addamo. Oggi, sempre a parere di Nigro, ci troveremmo di fronte a una linea di portata e di apertura nazionale dovuta però alla mancanza di “aggregazione” tra gli scrittori isolani di oggi.

Vale la pena di analizzare l’affermazione. In mancanza di una direzione univoca, è necessario infatti – e Nigro stesso lo fa – tracciare una mappa delle correnti alle quali i vari autori si rifanno. Secondo lui, le tre direttrici partirebbero da Pirandello, da Brancati e dal Barocco.

La prima potrebbe essere caratterizzata pirandellianamente dal motto “uno, nessuno, centomila”. Avrebbe infatti come caratteristica il fingimento, lo sdoppiamento, il gioco di specchi e delle parti. A questa, dice Nigro, afferisce il palermitano Roberto Alajmo che prova una certa insofferenza per l’elemento folcloristico locale e, attraverso storie minime, universalizza i problemi sociali.

La linea che parte da Vitaliano Brancati, va da sé, è quella erotica e di nomi più o meno eccellenti ne annovera molti: a partire da Silvana La Spina (tornata di recente in libreria con L’uomo che veniva da Messina, uscito da Giunti) fino a Giuseppina Torregrossa che mescola eros, cibo, storia e proposizioni femministe in romanzi che incontrano il favore del grande pubblico.

Il caso invece della corrente barocca è probabilmente il più interessante. Perché la costruzione estrema, curata nei minimi dettagli, infarcita di simbolismi e riferimenti colti, espressa virtuosisticamente con una lingua composita, complessa e reboante, discende, a nostro parere, dal modo stesso di esprimersi dei siciliani, capaci di fare della metafora e del gioco illusionistico la regola, e si nutre degli scenari architettonici locali. Tra gli esponenti di questa corrente Salvatore Nigro annovera Pietrangelo Buttafuoco (di recente uscito da Skira con la controversa biografia di Agostino Tassi, La notte tu mi fai impazzire); Silvana Grasso (adesso in libreria con un fortunatissimo romanzo, Solo se c’è la luna, edito da Marsilio) e Ottavio Cappellani, ammesso con riserva dallo studioso nella schiera del “barocchi” per la sua vena a tratti surreale e a tratti iperrealista. Su Cappellani (in uscita con Sicilian Comedi per la nuova etichetta milanese Sem) occorre però spendere qualche parola in più. Tra i pochi che, oltre ad aver avuto traduzioni in tutto il mondo, con la saga di Lou Sciortino, ha dato vita a una vera lingua letteraria in cui il dialetto siciliano non è solo un abusato pretesto per sporcare i testi di colore locale, il catanese intesse trame di situazioni grottesche in cui i suoi conterranei escono sconfitti dalle sferzate taglienti a una società piccina e accaparratrice, accanita sull’esigenza di mostrare piuttosto che essere. Anche quando si prova con le distopie (è il caso de L’isola prigione, edito nel 2011 da Mondadori), Cappellani racconta una terra perduta ma non immobile, nella quale però ogni possibilità di reazione è controllata dall’alto e con la connivenza di troppi. Polemista acceso, lo scrittore rappresenta una delle voci più forti del panorama isolano, sia quando si scaglia contro i politici, sia quando attacca con ogni mezzo la politica culturale locale, in mano sempre – come nei suoi romanzi – alla società che preferisce l’effettismo e i riflettori.

Trasversalmente a queste tre correnti maggiori si pone il genere. Che sia storico o giallo, può vantare sempre una tradizione illustre. Quella storica che proviene dal Tomasi del Gattopardo e dai Viceré di De Roberto; la gialla arriva da Sciascia. Alla prima si legano testi come La lunga vita di Marianna Ucria della Maraini o Minchia di re di Giacomo Pilati (approdato al grande schermo con Mariagrazia Cucinotta e con il titolo Viola di mare) e autori come Sebastiano Addamo (Il giudizio della sera) e, più recentemente, Giorgio Vasta (Il tempo materiale); la seconda ha certamente in Andrea Camilleri un unicum ma è praticata con successo anche da Santo Piazzese, Domenico Cacopardo, Gaetano Savatteri e, con grande successo di vendite, da Alessia Gazzola, freschissima autrice messinese che, con la saga dell’anatomopatologa Alice Allevi (diventata anche una fiction per Rai Uno), si muove tra il rosa e il giallo per i suoi chick-lit a base di cadaveri e autopsie.

Accanto a questi nomi, forse collateralmente alle correnti tratteggiate, si muove una composita galassia di scrittori che della Sicilia hanno conservato poco, che a volte l’hanno addirittura rinnegata ma che, senza dubbio, rappresentano bene la molteplicità di espressioni letterarie isolane. Sul versante dell’ironia smagata e intelligente, in barba a un esordio decisamente più cupo e drammatico (L’indecenza), si muove con destrezza Elvira Seminara, uscita nel 2015 da Einaudi con l’insolito e delizioso catalogo Atlante degli abiti smessi. Alla complessità dell’animo femminile fa sempre riferimento Tea Ranno, e di donne, streghe o madonne, parla Simona Lo Iacono (Le streghe di Lenzavacche). Strega per necessità è infine la protagonista del felicissimo esordio di Carmela Scotti, uscita lo scorso anno da Garzanti con L’imperfetta, una prima prova importante e già matura che, collocandosi nel filone storico, fa ben sperare per il futuro della letteratura siciliana nel mondo.

(Emanuela E. Abbadessa)